Opeth
Still Life
Quando la musica si fonde con l'arte più pura. E l'arte più pura cola attraverso i magli della musica, evaporando in fumi inebrianti o in esoterici liquidi, bramando al tradimento, quanto alla fuga, alla paura, alla soppressione, alla malinconia. Alla morte, alla vita. In un ossimoro magico, in una spirale che ottenebra i sensi.
Esistono molti tipi di cd. Ci sono gli album basati su melodie facili, da canticchiare in automobile, mentre l'autostrada soffoca sotto una cappa di smog, allietata solo da una brezza eterea. Ci sono gli album già più complessi, che a nessuno verrebbe in mente di violentare con simil-forme canore: non per inerzia, ma per sopperire a lapsus freudiani riguardanti parole (e chi se le ricorda?) e melodie (hmmm? hai detto qualcosa?). Ci sono infine i cd riflessivi, i cd da intenditori, i cd metallari (headbanging a go-go e poc'altro), i cd da camera, i cd da pogo, il noise, le ninna nanne.
Ma Still Life non è un disco. Non nel senso proprio della parola. A poco servono i termini balbettanti che qualche intrepido critico musicale ha voluto esprimere (è un concept album, uno dei migliori dell'intero 1999, ed altri polentoni del genere). Una cosa che accomuna tutti gli ascoltatori è quella di comprendere, sbalorditi, che questo lavoro NON può essere umano. Perchè nessuna mente umana può riuscire nell'impresa di partorire artisticamente un'opera di tale durata, portata, magnificenza, bellezza, austerità, sentimentalismo. E, anche se presto ci dobbiamo ricredere (gli Opeth umani lo sono, a meno che la Svezia non sia una regione di Marte), il dubbio rimane.
Sette. Il numero perfetto per antonomasia. Sin dall'epoca classica, questo numero ha avuto un'importanza tale da alimentare sospetti, contraddizioni e misteri sul suo conto. E sette è il numero di storie (ma potrei dire, in un climax crescente, di avventure, di mondi, di universi) che vengono schiuse, come un tesoro inestimabile, davanti ai nostri occhi. O, se vogliamo essere pignoli, la storia è una sola, essendo questo un concept, basato sul travagliato e amaro ritorno di un uomo, di un villaggio scandinavo medioevale, dall'adorata moglie Melinda. Ma l'azione del lemma umano può essere quasi dannosa, in questo contesto, in quanto non riesce ad esprimere, pur disponendo di una tale vastità di vocaboli, che cosa realmente è questo lavoro. Io, con umiltà, ci proverò, ma l'unico consiglio che posso dare a coloro che avranno la pazienza e la cortesia di leggermi è quello di comperare questo disco.
Il cammino è tortuoso, il freddo è tagliente, la stanchezza è un fardello sempre più pesante da sopportare. Ma il bosco, buio e pericoloso, è alle spalle: una landa sterminata si estende a vista d'occhio. Il villaggio è vicino. Lei. Melinda, lei, è vicina. The Moor è un faticoso flashback nel doloroso passato: nelle scelte sbagliate, nelle punizioni. Prima della chitarra arpeggiante c'è un'introduzione mefitica, sinuosa e gravosa. Sì. Il growl di Mikael Åkerfeldt si accompagna, in un binomio indispensabile, ai riff talvolta violenti, talvolta supplicanti, talvolta giacenti, talvolta esplosivi. Chiudi gli occhi e ti accorgi che Outcast with dogmas forged below / Seared and beaten, banished from where I was born. E nonostante la lunga lontananza, come in una fumosa leggenda, ancora All shudder at the call of my name. Ma Melinda is the reason why I've come. Ed è un grido di folle liberazione, di consapevole scelta, che trova il suo apice nel ruggito finale. L'indifferenza serpeggia per il villaggio, la paura viene seminata all'interno delle capanne: e dappertutto si può cogliere l'emarginazione dell'ignoranza, i brividi del sentito dire e del pregiudizio. Le spiegazioni a nulla servono: una cronaca fredda e spietata è l'unica soluzione. La prima parte di Godhead's Lament è tutta in growl: solo il ritornello (Searching my way to perplexion / The gleam of her eyes / In that moment she knew) si apre, speranzoso e pieno di intoccabile amore. Un pavimento di riff, ibridi fra il death e il progressive, sempre diversi fra loro, salgono e scendono a rafforzare il dolore e l'amarezza dell'urlo o a sottolineare la fragile dolcezza del cantato. E lo struggente incontro fra Melinda e lo sposo esule avviene, con morbidezza, in Benighted: quindici anni non si cancellano certamente in pochi minuti, ma la sorpresa è tale da soffocare ogni sprazzo di razionalità, privilegiando l'inconscio. Niente growl in questo pezzo: cori lontani e riecheggianti che vengono accompagnati da giri di chitarra jazz, con il sapore dell'antico e dell'arcano.
Le brume nebbiose della notte si dissolvono troppo presto, e con esse Melinda: un pallido sole, vertiginoso ed implacabile, fa la sua comparsa nel cielo plumbeo e dormiente. Ed è di nuovo senso di smarrimento, misto a dolorosa autocommiserazione dettata dall'ignoranza altrui. Di nuovo la fuga e la paura. Moonlapse Vertigo si apre con violenza, acquietandosi brevemente per poi confluire in un growl tanto feroce quanto doverosamente giusto. Ma lui sa qual è il suo compito: la morte può essere ingannevole... ma per lui solo. Melinda, invece... Fading time to leave from here / And less to fulfill my task / She would be safe and firm. Arpeggio su arpeggio, riff su riff, assolo su assolo, growl su growl: ma la missione rimane quella, in una corsa contro il tempo e contro ogni costume.
E il tempo, chissà perché, è sempre tiranno nelle cose fondamentali: stretto con invisibili ma potenti legacci, l'uomo sospira... bisogna riferire tutto all'amata. Il suo progetto è chiaro: andarsene per sempre da quel posto, con lei al suo fianco. Ma Melinda, evidentemente, non la pensa così: ha già un futuro con un altro uomo e, spiazzata dalla volontà del reietto, lo fissa inespressiva, piena di confusione e timore... La prima parte di Face Of Melinda, la conversazione d'amore, è dipinta a tinte morbide, quasi soul: la batteria è appena graffiata, la voce è calda ed avvolgente. Ma appena la proposta viene dispersa al vento, ecco subentrare la chitarra, icona della tempesta interiore della donna. E la risposta, dopo attimi di smarrimento, arriva in Serenity Painted Death, subdola e implicita, amara e decisiva. La riflessione tediosa, la speranza palpitante dell'uomo che viene infranta violentemente, con un tradimento impensabile eppure reale. I ritmi sincopati e progressive di chitarra e basso, il battito veloce e leggero della doppia cassa, il growl pesante come un macigno e intriso di amarezza, che si esprime come meglio non potrebbe in Saw here fading, blank stare into me / Clenched fist from the beautiful pain. Ovvero: una perfetta simbiosi leopardiana, ove le illusioni cadono per lasciare il posto all'arido vero", il doppio gioco di Melinda, per la quale tutto è cominciato.
E per la quale tutto sta per finire, nella conclusiva White Cluster: un concentrato di apocalittico epilogo, regressa umiliazione, incontenibile sorpresa e, quello che sorprende, perdono. Grande azione delle percussioni, che drumming dopo drumming segnano il tempo della scena fatale. Si è arrivati all'inevitabile dunque: il cammino dell'uomo si infrange su un patibolo, il boia beffardo ed implacabile, con una folla vestita di bianco (il white cluster, sciame bianco, del titolo) venuta solo per vederlo morire. Ma, come nei migliori episodi omerici, carico di pathos, il condannato trova le parole per ammonire il popolo e il giustiziere: Hangman, clutching at his tools / I will come for you. E mentre il cappio si stringe, viene esalato l'ultimo sospiro, si spegne in silenzio, accompagnato da un ossessivo arpeggio, l'animo, non prima di aver riconosciuto una persona familiare in mezzo alla calca. Melinda, desiderata artefice, insospettata carnefice. Per la quale I slither for you and I'm dying / I find trust in hate.
Con un sussulto, ci rendiamo conto che quella è una storia a parte. Non siamo noi ad essere stati giustiziati, ma il nostro alter ego. E il sogno è finito, le spire di un incubo distorto sciolte.
Tweet