R Recensione

8/10

Robin Trower

Twice Removed From Yesterday

Robin Trower è uno dei pochissimi chitarristi inglesi assoluti signori del tocco e dell’espressione. Non solo li ha fatti suoi, con una consapevolezza istintiva del loro potere, ma anche sono essi ad aver scelto di vivere fra le sue dita. Viene criticato per le sue influenze (Hendrix): non mi interessa. Girai l’America nel 1974 con i Ten Years After come attrazione principale, i miei King Crimson secondi e il suo gruppo in apertura e quasi ogni sera mi ritrovavo ad ascoltare quest’uomo che vive per cose che vengono da molti considerati dettagli: la qualità del suono, le sfumature di ogni singola nota e svisata, l’abbandono costante alla sensazione del momento. Conoscerlo mi ha salvato la vita. Tornati in Inghilterra, pensai bene di prendere lezioni di chitarra da lui.

Queste ammirate parole rilasciate da Robert Fripp, chitarrista dall’approccio musicale agli antipodi rispetto a Trower e forse per questo ancora più avvertito e consapevole del tipo di talento in possesso del suo collega, condensano al meglio quanto di speciale compete a questo schivo maestro della Fender Stratocaster.

In gioventù Robin preferiva suonare le Gibson e militava in una formazione pop e proto/progressive dominata dalle tastiere, i Procol Harum. L’avvento a Londra del ciclone americano Jimi Hendrix lo convinse a cambiare marca di chitarra e aspirazioni musicali. Dopo aver tentato, con qualche successo ed a prezzo di continuo stress e litigi, di trascinare il suo gruppo in terreni meno pop e più blues, si convinse alfine a fare il gran salto abbandonando nel 1971 i Procol Harum al loro destino e dandosi da fare per avere il suo trio alla Cream/Experience.

Non avendo però doti canore come i suoi idoli Clapton ed Hendrix dovette cercarsi un bassista/vocalist, risolvendo il problema alla grande con lo scozzese James Dewar, niente di speciale sullo strumento ma dotato di voce blues sopraffina, calda ed espressiva ai livelli di un Paul Rodgers (al tempo nei Free, poi nei Bad Company) o di un David Coverdale (al tempo nei Deep Purple, poi negli Whitesnake) e completando il trio col batterista Reg Isidore, buon comprimario.

Nel 1973 esce questo primo lavoro “Twice Removed From Yesterday” del tutto scioccante per chi già conosceva la chitarra di Trower, spesso affogata nelle complicate e pompose partiture del suo precedente gruppo. La formula del trio rockblues, senza tastiere, si rivela il toccasana per questo esecutore che fa del tocco, della sfumatura (nuance, come dicono gli anglosassoni), delle mille possibilità espressive offerte da una corda pizzicata e “lavorata” dalle dita nonché dalla felice risposta sonora delle valvole mandate in saturazione dentro un buon amplificatore. Uno stile esecutivo che ha bisogno di spazio, di ampi vuoti sonori intorno ad esso per farsi apprezzare in tutte le sue pieghe, e quindi che girino al largo altri strumenti che insistono sulle stesse frequenze, tipo pianoforte, organo, sintetizzatori.

Il disco esordisce con il possente arpeggio, reso strascicato dall’abbondante uso di vibrato ed eco, di “I Can’t Wait Much Longer”, quasi una dichiarazione d’intenti in riferimento all’inevitabile, fresco abbandono dei Procol Harum per divergenze musicali: ed è subito magia, per intendersi si può immaginare che Jimi Hendrix sia ancora vivo, abbia ulteriormente migliorato e affinato suoni e stile e abbia messo su un gruppo con Paul Rodgers alla voce! Il povero Dewar (se n’è andato nel 2002) non ha forse la grinta e il carisma da palco del fuoriclasse ora nei Queen, ma in quanto a espressività ed anima non ce n’è per nessuno: nel suo genere, fra i migliori mai sentiti.

Di ciò che segue e cioè il lungo e lentissimo blues “Daydream” si può invece affermare che se la gioca con la zeppeliniana “What Is And What Should Never Be“ per la nomina a miglior pezzo blues ogni tempo. La performance di Trower è titanica, l’uomo è qui ispiratissimo, aiutato dall’estrema rarefazione dello spettro sonoro dovuta alla bassissima cadenza e all’accompagnamento più essenziale che mai della sua sezione ritmica. Il maestro riesce a “entrare” in ogni nota che suona, sia di accompagnamento all’ottimo Dewar che nel lungo assolo finale, plasmandone in maniera lussureggiante e nutriente il suono, il tempo, l’attacco, l’inviluppo armonico, il rilascio…qui la chitarra proprio parla, e fa gran bei discorsi, vero cibo per le orecchie e per il cervello ed il cuore. Il bello è che esistono versioni in concerto ancora migliori di questa di studio, ad esempio quella contenuta in un vendutissimo disco live del 1975 nella quale Trower dilata a dismisura gli ultimi singhiozzi di Stratocaster, nel finale ulteriormente rallentato e strascicato a non finire, con un lavoro incrociato di manopola del volume, leva del vibrato e posizione fisica sul placo rispetto all’ampli per cercare e trovare formidabili larsen controllati che rasentano la poesia. Non ho altre parole, un grande.

A chiusura di una triade iniziale che rappresenta la parte nobile dell’album e la summa del Trower pensiero, la sfolgorante “Hannah” si dipana anch’essa in modo strascicato, con le invocazioni di Dewar a farsi strada nel super effettato e risonante ondeggiamento della chitarra, la quale poi fa impennare la ritmica per un assolo frenetico e compatto. La parte buona, buonissima dell’opera finisce qui, le sei canzoni che seguono, meno dilatate e pretenziose, non raggiungono più le vette della prima parte, quelle che rendono importante e godibilissimo questo disco.

Vi sono musiche che si fanno amare per forza e genialità compositiva, altre per il messaggio profondo e poetico dei testi, altre ancora per innovazione e valore pionieristico. Robin Trower non compone genialmente, per lui i testi sono fondamentalmente veicolo per inserire lo strumento vocale nella sua musica, non è innovatore. La sua arte è il suono, potente e ammaliante. Musica per chitarristi forse, quantomeno per musicisti, che però negli anni settanta riuscì a vendere milioni di dischi, con un exploit imprevedibile e meritato.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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galassiagon (ha votato 8,5 questo disco) alle 13:45 del 25 agosto 2014 ha scritto:

musicista immenso i suoi dischi sono splendidi e ancora oggi interessantissimi

come dice il recensore forse è musica solo per chi ama la chitarra, ma cavolo qui c'è classe pura e molte emozioni

consigliato anche ai giovani più curiosi