Dream Theater
Metropolis pert. 2: Scenes From A Memory
In questo suo sesto lavoro in studio, uscito a dieci anni di distanza dall’esordio, le buone doti compositive e le straripanti qualità esecutive del Teatro Del Sogno trovano il loro zenith per via della solida concettualità alla base dell’opera, in grado di innalzare musiche e testi irrorandoli di significato, spessore e valore aggiunto.
Ma al tempo stesso le musiche qui comprese rappresentano anche un deciso passo, anche se ancora sfumato, verso una narcisistica riesumazione di ben precise pagine “classiche” del rock (Yes, Rush, Metallica, Pink Floyd, Led Zeppelin i primi che vengono in mente), effettuata a guisa di veri e propri passaggi e spunti musicali e non, come auspicabile, come generico calderone formativo e culturale da cui estrapolare il proprio suono, il proprio stile.
È questa nota parabola dei Dream Theater più o meno ormai condivisa da tutti: nati come entità di indubbia originalità, mirabilmente incrociante due generi musicali in passato quasi conflittuali come il progressive ed il metallo pesante, non sono riusciti nel proseguo di carriera a sottrarsi alla citazione efferata e inebriante dei propri miti, quasi come se la riproposta ad altissimo livello tecnico di intuizioni altrui vada a lenire una specie di complesso d’inferiorità, legato al fatto di non esserne gli effettivi creatori e quindi al rimpianto di volerlo tanto essere…il gruppo ha insomma gettato da tempo alle ortiche la sua specifica pagina nella storia del rock (che resterà certamente, ma sarebbe potuta essere più ricca e consistente!) per inseguire con enorme perizia ma minuscola libidine da coverizzatori una serie di grandi pagine rock, sacrosanto oggetto della loro ammirazione ma purtroppo non tenute a debita distanza al momento di comporre.
Di tutta questa storia, questo disco ne contiene i prodromi, per fortuna messi in secondo piano dalla consistenza musical/concettuale. “Metropolis…” è a tutti gli effetti un concept album fra i più riusciti e fascinosi e come tale va ascoltato rigorosamente per intero. Risulta riduttivo il tentativo di estrapolarne singole canzoni (le tracce al proposito non sono separate da silenzi, ma arrangiate in un unicum sonoro) e di andare in cerca del capolavoro o all’opposto del riempitivo. Conviene invece prendersi settanta minuti e ascoltarlo tutto d’un fiato, magari in cuffia, auguratamene con i testi alla mano e la necessaria conoscenza linguistica per capirli. La vicenda del tipo che, avendo precisi e ricorrenti incubi, si rivolge ad uno psicanalista il quale riesce a farlo recedere all’epoca dei fatti sognati (settanta anni prima) e a fargli rivivere compiutamente tutta la tragedia (un doppio omicidio) imprevisto epilogo compreso, riesce assolutamente nello scopo di dare profondità e fascino ai testi, forza e tensione alle musiche, emozione e soddisfazione a chi ascolta. Momenti lirici, parossistici, suggestivi, drammatici, gloriosi si alternano tutti con un loro specifico significato.
Tecnicamente il gruppo, che si auto produce impeccabilmente, è al massimo tiro avendo appena inserito l’ennesimo super virtuoso nella persona del tastierista Jordan Rudess, capace sì di inseguire ed armonizzare le fughe del prodigioso chitarrista Petrucci senza perdere un sessantaquattresimo ma soprattutto, con la sua preparazione pianistica a livello di concertista classico, di elevare il ruolo di questo bellissimo strumento nell’economia della formazione, con tocchi da maestro.
Personalmente lo giudico uno splendido disco, di gran lunga il mio preferito dei Dream Theater: la loro apoteosi con all’interno piantati i semi della decadenza.
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