High Tide
High Tide
“Se vi sembra che il violino sia uno strumento solo per fighetti e signorine, allora non avete mai sentito Simon House! Suona come un diavolo!”. Con queste colorite parole il sempre macho e schietto Lemmy Kilminster, leader dei Motorhead e carismatico personaggio in ambito rock (che lo si ami o meno) ben definisce questo intenso musicista, suo ex-compagno negli Hawkwind ed in seguito passato persino alla corte di David Bowie.
Le prime cose importanti nella carriera di House si possono apprezzare in questo fenomenale e sfortunato quartetto progressive della prima ora, autore di due magnifici album all’inizio degli anni settanta passati quasi inosservati al tempo, tanto da costringere la formazione a sciogliersi. Il mio preferito dei due è questo secondo, dotato rispetto al primo di un suono più corposo e rotondo, di un songwriting più melodico e vario, di una personalità ancora più spiccata.
Il disco ha durata piuttosto breve essendo composto da soli tre brani, quello iniziale è una composizione dilatata da una lunga jam strumentale in coda, mentre gli altri due sono invece vere e proprie suites, assai articolate. Piazzata subito all’inizio vi è la caratteristica dominante del sound High Tide: la frenetica, disturbante, malsana lotta fra la chitarra elettrica (in mano al cantante Tony Hill) ed il violino elettrico di House.
Per l’incipit di “Blankman Cries Again” entrambi gli strumenti sono “lavorati” col pedale wah wah, e segnano all’istante un’atmosfera oppressiva e pericolosa colle loro sinuose scale in unisono. Un veloce scambio di assoli e poi piomba nel panorama sonoro la voce tenebrosa e forte di Hill, che va a descrivere una melodia epocale, turgida ed evocativa, disequilibrante, perfetta.
Siamo in un regno apparentabile ad Amon Dull II, Van Der Graaf Generator e Black Sabbath, ma sono il disaccomodante stile della chitarra e soprattutto del violino a dare unicità e distinzione alla formazione, specie quando, conclusa la parte cantata, House si scatena in un drammatica sessione improvvisativa, più in là rilevato dall’agre solista di Hill, vaneggiante e psichedelica la sua parte. Otto minuti furibondi, compatti, tosti, claustrofobici.
La suite che segue “The Joke” si sviluppa in tre distinte sezioni: apre sempre una fase free form, coi due strumenti solisti che si incrociano vorticosamente, si compattano in un durissimo riff per poi separarsi di nuovo, scambiandosi via via il proscenio. Uno stranissimo break di batteria (l’ottimo Roger Hadden smette letteralmente di suonare per qualche secondo e poi ricomincia tenendo un altro tempo) porta alla sezione centrale, con un bel canto evocativo di Hill appoggiato sul suo stesso arpeggio di chitarra, modulato dal bel lavoro del bassista Peter Pavli e compattato dagli accordi d’organo di House.
L’atmosfera sarebbe quasi idilliaca ma il violino non ci sta e riprende a colorare di psichedelia e tensione il brano, per poi imprevedibilmente approfittare di un nuovo acquietamento della ritmica e ripartire con una meravigliosa melodia folk, squisitamente romantica e capace di suscitare un irresistibile senso di ricovero, grazie anche al momentaneo passaggio alla chitarra acustica del leader Tony Hill.
Il terzo ed ultimo brano occupava coi suoi oltre quattordici minuti tutta la seconda facciata dell’originario LP. Si intitola “Saenonymus” e mette in fila ancora una volta gli ingredienti forti e contrastanti del suono High Tide: jam session farneticanti e destrutturate si ricompongono in forti temi melodici per poi spegnersi e permettere l’ingresso della voce solista, ben presto sopraffatta nuovamente dal magma sonoro.
Musica progressiva autenticamente scintillante quella degli High Tide, ed anche assai accessibile. Un peccato che la casa discografica di allora, assai poco lungimirante, li abbia lasciati a piedi dopo quest’opera, uscita alla vigilia della grande stagione progressive di inizio settanta, nella quale avrebbero meritato di figurare fra i protagonisti, anche commerciali. Il gruppo invece, rimasto senza contratto, si disperse istantaneamente, dovendosi oggi accontentare dell’aura di piccolo mito che riveste per gli appassionati sia di progressive che di rock duro.
Vi fu una reunion a fine anni ottanta ma senza buoni risultati: troppo tardi, questa è musica figlia di giovanili e potenti tensioni e struggimenti, nonché (ehm) di una bella dose giornaliera di acido lisergico, impossibile da mantenere in età più matura e consapevole.
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