Cream
Wheels Of Fire
Il gruppo sbagliato al momento giusto: è quello che ho sempre personalmente pensato di questi Cream che hanno fatto indubbiamente storia, a mio giudizio grazie ad una ristretta manciata di belle cose, contrapposte a molto, moltissimo fumo negli occhi. Il giochino di far convivere tre tizi diversi in molti aspetti, ma soprattutto e fondamentalmente nel tipo di musica da suonare insieme, ha trovato un suo mirabile equilibrio in episodi relativamente sporadici, per il resto i loro album sono farciti velleitari tentativi di adeguarsi luno allaltro; altro discorso per le registrazioni dal vivo, decisamente propendenti per il versante blues ma talmente distorte dalla battaglia fra i rispettivi ego da risolversi in mattoni poco digeribili (tranne le dovute eccezioni, la più luminosa delle quali è contenuta proprio in questo disco).
Al bassista Jack Bruce interessava il jazz pop, le melodie e gli accordi un po contorti e snob, con i quali in effetti ci tedierà volentieri per quasi tutto il resto di carriera. Ginger Baker invidiava e ricercava il facile successo del pop, sentendosi alluopo compositore e magari cantante oltre che batterista, spingendo perchè il suo gruppo cavalcasse le mode psichedeliche della swinging London. Clapton infine teneva ancora la spocchia del purista blues, con unespressione di sufficienza dipinta sul viso ogni volta che doveva piegarsi ad una qualche contaminazione stilistica diversa.
Sul palco i tre si azzuffavano dunque alla morte, sottoponendo il loro pubblico adorante ad interi quarti dora di triplice fuga strumentale per buona parte dei brani, jam sessions che tradiscono spudoratamente i veri sentimenti di cui erano preda, non già lunione e la combinazione delle tre personalità artistiche, bensì la lotta e la sopraffazione sonora. A qualunque regolazione di volumi iniziasse lesibizione, ben presto tutte le manopole degli amplificatori scivolavano sul 10, mentre il frustratissimo Baker non sapeva più cosa fare per farsi sentire in platea, già che, pur pestando come un ossesso il proprio kit, non riusciva neanche lui stesso a sentirsi.
Ora, questi tre allora giovani sboroni sono nella memoria collettiva ricordati da molti come la cosa più eccitante che potesse capitare di vedere in concerto in quegli anni (dopo Jimi Hendrix, magari), ma non credo sia così. E sufficiente guardarsi in DVD il loro ultimo, celebre concerto, quello di addio alla Royal Albert Hall di Londra, per convenire quanto confuso, sporco, privo di passione e di piacere di suonare sia il furioso assalto al loro repertorio ivi immortalato. E sì che in quella occasione i tre galletti dovevano sentirsi un minimo più rilassati rispetto al solito, avendo ormai pianificato di lasciarsi allindomani, per sempre.
Lesame di questo album, diviso in due sezioni una in studio e una dal vivo, può essere illuminante a riguardo: è il terzo ed il più acclamato lavoro dei Cream, uscito allapice della fama del trio in piena estate 1968, guarnito dalla classica, tenera copertina psichedelica, che i tempi imponevano.
Si comincia subito molto bene: White Room è una sostanziosa canzone pop rock di Bruce, dotata di una discesa melodica accattivante, resa irresistibile dalla qualità chitarristica sfoderata da Clapton nelloccasione. Eric scorrazza per il brano con lo strumento ricolmo di effetto phasing e wah wah, alla maniera psichedelica di allora, con riconoscibile classe. Indovinata anche lidea, tipicamente jazzistica, di utilizzare a preludio, intermezzo e chiusura del brano un enfatico ponte in cinque quarti, la cui farraginosità e rugosità ritmica acuisce il desiderio di risentire il lineare e trascinante sviluppo della strofa. Ancor oggi sia Bruce che Clapton annoverano la Stanza Bianca nelle scalette dei loro concerti, rimanendo intramontabili il suo appeal melodico e la sua brillante scansione ritmica.
Sitting On Top Of The World, che segue, non potrebbe essere più diversa: un nodoso blues di Howlin Wolf, reso senza la minima concessione al pop. Clapton, chitarrista dalle scarse attitudini compositive, assai irritato dalle stravaganti divagazioni stilistiche dei suoi compagni, sceglie per sé il ruolo di fine esecutore, non componendo un tubo per questalbum e cercando di infilarvi invece il maggior numero possibile di ortodosse, pachidermiche cover di vecchio blues, a totale contrasto colle fughe lisergiche e fumantine cercate dagli altri due.
Passing The Time è appunto la prima stravaganza di Baker che si incontra nellalbum. Il produttore Felix Pappalardi la arrangia in maniera più che psichedelica, con glockenspiel e Calliope alla maniera dei Beatles, assolvenze e dissolvenze incrociate, armonie ingenuamente suggestive. Finisce per suonare, in certi punti, come una cosa dei Pink Floyd di Syd Barrett, probabilmente in quei giorni uneffettiva ispirazione per Ginger.
As You Said, composta e suonata dal bassista alla chitarra acustica, contiene gli evidenti germi di quel modo di comporre a lui caro, un po astruso e melodicamente faticoso, con quegli stucchevoli passaggi al falsetto che infesteranno per sempre il repertorio del nostro. Baker è confinato al solo charleston, Clapton soprassiede del tutto, sicuramente più che volentieri.
Pressed Rat And Warthog è monnezza, direbbe il lapidario commentatore di questo sito stokerilla, sin dal titolo animalista. Il disturbato autore del brano Ginger Baker si produce personalmente in un compìto recitato, narrante di un topo e un facocero che chiudono il loro negozio pieno di zampe di cane, mele atonali e carne amplificata Intanto il suo bassista si trastulla al flauto, Pappalardi fa lo stesso con una tromba e ne viene fuori una specie di marcetta folk, vigorosa perché Ginger, oltre a declamare minchiate, picchia forte sui suoi amati timpani, facendo così tanto fracasso che verso la fine del brano anche Clapton si concede di scendere al loro livello e infila il jack dellampli, concedendosi quattro svisatine in dissolvenza.
Politician è un ben noto blues composto da Bruce, di quelli che Clapton vorrebbe sempre uscissero dalla sua penna. Trovo comunque che il riff che lo sostiene sia senzaltro molto originale ma allo stesso tempo carente di swing, così meccanico, poco scorrevole e piacevole. Bene ha fatto a suo tempo il prodigioso chitarrista Robben Ford ad ometterlo completamente nella sua cover del brano, contenuta nellalbum Mystic Mile del 1993. Provate a sentirla, la versione di Ford è fantastica, rotola in avanti nel modo più corretto e fa intuire chiaramente quanto il giusto groove faccia migliorare le cose, nel rock e nel blues.
Ancora i pruriti compositivi del batterista in primo piano per Those Were The Days. Stavolta il suo brano è infestato di campane tubulari, le cui risonanze finiscono per coprire la chitarra di Clapton e disturbare il cantato di Bruce. Un altro trascurabile riempitivo.
Le cover proposte da Clapton tornano con Born Under A Bad Sign, tosto blues di Brooker T. Jones, seguito dallultima composizione di Bruce, la semiacustica e valida Deserted Cities Of The Heart. Il bassista la canta al meglio delle sue possibilità (non trascendentali, a mio gusto), omettendo svolazzi in falsetto e stranezze melodiche.
La porzione dal vivo (siamo al Filmore West, San Francisco) esordisce con i quattro minuti di gran lunga migliori di tutta la carriera dei Cream, uno di quei classici episodi capaci di elevare le quotazioni di unintera discografia, di una carriera. La cover di Crossroads del grande nero Robert Johnson è resa con unenergia, pulizia, feeling, gusto, coesione epocali. Non si sa bene che cosa avesse bevuto e mangiato Clapton quella sera, quale droga avesse assunto, fatto sta che riesce a sciorinare un paio di assoli olimpici, due dipinti desposizione, due monumenti. La sua Gibson calda e mediosa (il woman tone, come veniva chiamato il suo peculiare timbro dellepoca) scivola con uno swing perfetto fra i cambi di accordo blues del pezzo e disegna percorsi melodici messianici.
E il definitivo solismo rockblues di tutti i tempi, quello da far ascoltare, o ricordare, a chiunque pensi che Eric Clapton sia un più che sopravvalutato performer. Non è merito del brano, giacchè la versione dello stesso al concerto daddio alla Royal Albert Hall, ad esempio, fa schifo, confusa e affrettata. Era proprio il momento, lì a San Francisco, a quellora e quel giorno, ad essere magico ed irripetibile. A dirla tutta, pare che vi sia contenuto un pesante editaggio verso la fine: allingresso dellultima strofa i suoni infatti cambiano percettibilmente, specie quello della batteria di Baker. Probabile quindi che i quattro minuti di questo gioiello derivino da due serate diverse, e che si sia deciso di incollare alla prima il finale dellaltra (si tratta comunque dei soli, ultimi trenta secondi).
A parte le sperticate lodi alla performance chitarristica, cè da dire che anche il basso di Bruce non scherza per niente, come suo costume partendo per la tangente, praticamente anchesso in assolo, però nelloccasione con la giusta misura, atta a contenere la follia improvvisativa e mantenere il giusto tiro alla musica. Il canto, infine, è per una volta appannaggio di Clapton (unica sua esibizione vocale solista nel disco). Al tempo, il chitarrista non aveva ancora messo a fuoco le sue virtù vocali, in realtà molto più interessanti di quelle di Jack Bruce, voce solida e potente ma sinceramente poco fascinosa. Gli anni successivi ci diranno che Eric Clapton è anche ottimo cantante, e comunque qui su Crossroads si può cogliere il fatto che già nei Cream avrebbe fatto bene ad andare più spesso al microfono.
Il blues lento Spoonful che segue è una valida pagina improvvisativa, di sicuro coinvolgimento. Magari qualche minutino in meno degli oltre sedici effettivi me lo sarei augurato Sempre meglio, in ogni caso, dei sette minuti orgasmici che vengono subito dopo: in Traintime Jack Bruce è alla voce e soprattutto allarmonica, quasi da solo (Baker spazzola il rullante, Clapton è sicuramente a bere un paio di drink dietro al palco) ed è pallosissimo. La stessa noia si trasferisce poi da lui al suo batterista, che nella finale Toad si profonde nellimmancabile, chilometrico, asfissiante assolo, una pratica notoriamente tediosa a prescindere, quale che sia la bravura, labilità, la tecnica e la passione di chi vi si cimenta.
Importanza storica da nove, per carità, ma scaletta pressoché trascurabile per due terzi. Metto un otto, a merito della presenza di Crossroads.
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