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R Recensione

10/10

Led Zeppelin

Physical Graffiti

Adottando una similitudine beatlesiana, questa sesta uscita discografica dei Led Zeppelin è assimilabile al “White Album”, condividendo con la sessantottina uscita dei quattro di Liverpool il formato in doppio LP, la varietà di temi, la discontinuità qualitativa, la prolissità. Destino di questo, e di buona parte dei doppi album, è subire l’appunto che se si fosse fatta una cernita dei brani migliori, sgrondando pesantemente e con coraggio la scaletta, si sarebbe ottenuto un disco singolo da fine del mondo.

E’ una considerazione perfettamente inutile, seppur suggestiva; varie volte mi son trovato a fantasticare l’efficacia prorompente di un’uscita zeppeliniana sul mercato del 1975 più o meno così concepita: apertura debordante con “Kashmir” (più corta di un minutino…) seguita dalla presa di fiato di “In The Light” (anch’essa più compatta… diciamo tra i sei e sette minuti) e poi di nuovo sotto con “The Rover”, a concludere la prima parte. Girando il 33 giri, subito le assassine “Custard Pie” e “Trampled Underfoot”, poi una “Ten Years Gone” contenuta in circa cinque minuti e gran finale con “In My Time Of Dying” (tutta, guai accorciarla!). Magari da qualche parte, se ci sta, ancora una a scelta fra “Wanton Song” e “Sick Again”. Che disco!

Tornando alla realtà, siamo invece a celebrare una pingue raccolta di quindici composizioni, alcune capolavori folgoranti, altre schegge rinomate della carriera del Dirigibile, altre ancora buone cose, ed infine anche qualche, solo piacevole, riempitivo. Di capolavori folgoranti personalmente ne conto in numero di tre: il primo in ordine di apparizione è ”The Rover”, irresistibile rock blues fatto di un pedale di basso di John Paul Jones che veicola uno di quei riff scuoti viscere, profondo e conturbante, che il maestro Jimmy Page in quegli anni riusciva ad estrarre come nessun altro dalle sue dita. Veramente soprannaturale la componente magica e suggestionante che questo chitarrista è stato capace di infondere a molta sua musica, suoni e note che ti scavano dentro e ti rivoltano come un calzino, con un che di ancestrale, di destabilizzante, di misterioso, di paranormale. “The Rover” è esempio di tutto questo, ci martella senza pietà e senza poter mai stancare, è il rock nella sua forma perfetta.

Seguito subito da un esagerato e supremo esercizio blues, gli undici minuti e passa di “In My Time Of Dying”. Il punto di partenza è sempre quello, le vecchie cose di qualche nero americano della generazione precedente, ma ciò che in altre mani potrebbe essere materia di vuoto scopiazzamento, in quelle dei Leds assurge a impareggiabile resa dinamica ed emozionale. Page infila il ditale slide all’anulare sinistro e accantona la Gibson Les Paul per la più pulita e sgranata Danelectro, che gli consente nenie più sottili e filamentose. La macchina ritmica si mette in moto senza fretta, intanto che Robert Plant recita il suo testo, ma il meglio viene dalla lunga sessione strumentale incentrata su chitarrista e batterista, di un bello da far venire le lacrime agli occhi: sotto il bombardamento inaudito del prode ragazzo di campagna Bonzo, l’alchimista di città Pagey esegue un riff dietro l’altro, uno più bello dell’altro, intercalati da assoli slide semplici e luciferini. Così diversi, così nati per suonare assieme questi due grandissimi strumentisti, una fortuna che si siano incontrati. I suoni sono da paura, l’essenza del rock blues è, anche qui, al suo massimo valore di picco, il Dirigibile è coeso, pesante, drastico, un’assoluta macchina rock. Più che giustificata e per niente logorroica l’estensione abnorme del brano.    

Ma il simbolo perfetto del Martello degli Dei (retorica profondamente esplicativa per questo supergruppo) arriva in posizione numero sei e s’intitola “Kashmir”: nessuna intro, il primo tonfo squassante di John Bonham inaugura otto abbondanti minuti di trionfo pagano. La Danelectro di Page, accordata smollando di un tono prima seconda e sesta corda, stacca una progressione possibilmente geniale, esotica e ciclica, gonfiata e resa epica dal mellotron di Jones, devastata e resa inarrestabile dalle bombe di Bonham, che per i ritmi così pachidermici è proprio portato (eufemismo). Plant non è da meno e si inventa una linea vocale sinuosa come un cobra, che si avviluppa alle poderose colonne portanti del brano e lo orientaleggia ancor di più, da qualche parte a scelta tra il Marocco e lo Sri Lanka. Che diavolo di pezzo! Potenza originalità profondità personalità enfasi e tracotanza in un tutt’uno epocale che, nell’immaginario collettivo della maggioranza di appassionati zeppeliniani sta, insieme a “Whole Lotta Love”, a far da damigella d’onore alla regina “Stairway To Heaven”.

Tra le rinomate canzoni, non dei capolavori ma comunque notevoli, sono portato a considerare l’apripista “Custard Pie”, un hard rock risoluto e con caratteristici, geniali offbeat, cioè col tempo ritmico che spareggia ogni tanto, accrescendo l’interesse e l’efficacia dei riff. Da subito si nota che qualcosa non quadra nella voce di Plant, più rauca e meno esplosiva e facile agli acuti che in passato. Si saprà poi che a fine 1973 aveva dovuto affrontare un intervento alle corde vocali. Da cantante autodidatta, e generoso, i primi anni di carriera passati ad urlare sconsideratamente per sovrastare l’attack assoluto dei suoi tre compagni, senza adottare le opportune tecniche di salvaguardia della gola, erano stati micidiali. La vera voce di Plant se ne va dopo il quinto album “Houses Of The Holy” per non tornare mai più, fermo restando il suo proverbiale timbro, l’imprescindibile fascino interpretativo ed il suo ruolo centrale nel gruppo.

Rock ancor migliore è “Trampled Underfoot”, in quel filone “funky ma con pesantezza”, molto gradito a Jonesy che ha modo di lavorare in controtempo di Clavinet. E che dire dell’ottima “In The Light”, ambiziosa composizione caratterizzata da una lunga introduzione nella quale Page si diverte sfregando un archetto sulle corde della sua Gibson, carica di effetti. La canzone si mantiene in bilico fra il rock strascicato e la ballata, con un fantastico lavoro di Clavinet del pluristrumentista Jones, capace di uno squisito passaggio in maggiore nel ritornello, molto solare dopo strofe assai ieratiche e cupe.

Altro momento molto ambizioso è “Ten Years Gone”, superarrangiata blues ballad nella quale Page si fa in quattro ad orchestrare mille diverse chitarre e creare un muro di suono armonicamente ricchissimo, a mio parere sovraproducendo la canzone e compromettendone in parte l’efficacia. Molta gente, fra cui lo stesso chitarrista, ha un’altissima considerazione di questo pezzo e lo annovera fra i capolavori del Dirigibile. Dite la vostra che dico la mia, per me è da otto, non da dieci.

Verso la fine dell’album vi è un susseguirsi di canzoni relativamente brevi e semplici, non più usate come all’inizio per intervallare efficacemente i grandi, corposi affreschi rock e blues sopra descritti bensì a sé stanti, una dietro l’altra. Il disco perde così di efficacia perché, se “The Wanton Song” e “Sick Again” sono signori rock e avrebbero fatto miglior figura in una scaletta più compatta, cose come “Boogie With Stu” e “Black Country Woman” sono puri e semplici riempitivi, divertissement, autoindulgenze.

Per chiudere (male) nomino “Down By The Seaside”, solo per dire che personalmente non la reggo. Qui gli Zeppelin pisciano fuori del vaso, scimmiottando farraginosamente qualcosa e qualcuno a loro estraneo (Neil Young? Ma neanche), senza averne proprio il giusto mood. Non c’è tensione, ma non c’è neanche vero relax californiano, non ci sono passione e ispirazione, a mio modo di vedere. Bonham, in particolare, è fuori posto. Dev’essere una cosa imposta da Plant, alla quale i compagni si adeguano con relativa ispirazione.

Sesto e ultimo discone della miseria della carriera Zeppelin, “Physical Graffiti” è vivamente consigliato a tutte le età e qualsiasi livello culturale. Droghe, bevute, incidenti e disgrazie alla lunga mineranno fortemente l’energia iperuranica della formazione, avvertibile ancor oggi, intatta e magnifica, all’ascolto dei loro primi sei lavori, avviandola ad un evidente tramonto seguito da un’improvvisa e drastica fine, siglata dall’amara scomparsa del batterista. Resta un plotone di canzoni ineguagliabili, diverse delle quali contenute in questo smagliante lavoro.

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Voto degli utenti: 8,7/10 in media su 51 voti.

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Alessandro Pascale (ha votato 8 questo disco) alle 20:20 del 7 marzo 2008 ha scritto:

tutto perfetto

il farina colpisce ancora e sempre con i dirigibili puntati. Recensione impeccabile però da quanto dici tu stesso mi sembra un pò esagerato il massimo dei voti. Per me è un album da 8,5 non certo da 10, e mi sembra che anche tu sia d'accordo nel trovarvi molti riempitivi e cadute qua e là. Certo dici bene quando ipotizzi un possibile lp unico, sarebbe stato paradisiaco...

cmq ora il farina completerà gli album dei led? Ormai ne mancano pochi al sito

TheManMachine (ha votato 9 questo disco) alle 13:34 del 8 marzo 2008 ha scritto:

Entusiasmo alle stelle!

Ciao Pier Paolo! Recensione un po' più da fan questa volta, ma l'emotività in fin dei conti non guasta, considerato di chi e di cosa stiamo parlando! Album notevole come i precedenti, con i distinguo da te evidenziati, e che in gran parte condivido, anche se credo che dobbiamo accettare tutto l'opus zeppeliniano così come esso è stato consegnato alla storia, con tutti i suoi pregi e difetti. Chè tanto i pregi sono sicuramente superiori ai difetti. Alla prossima (tua bella recensione sui LZ?...)!

swansong (ha votato 9 questo disco) alle 12:07 del 10 marzo 2008 ha scritto:

Complimenti Pier Paolo!

Tutto giusto quello che scrivi...e troppo esagerati i Leds questa volta! Questo album ha troppi filler e dopo 5 capolavori da 10 (i primi 4 omonimi e Houses of the Holy) arriva il primo album non perfetto. Peccato: se la track-list fosse stata quella suggerita da te, avremmo avuto un altro capolavoro da dieci (cum laude!). Comunque tiratemi fuori un altro gruppo in quegli anni (adesso non ne parliamo nemmeno) che abbia sfornato 6 album di fila di così alto livello...

ozzy(d) (ha votato 9 questo disco) alle 19:16 del 13 marzo 2008 ha scritto:

oh let the sun beat down upon my face

Kashmir...il riff più importante della storia del metal, altro che "smoke on the water"....."martello degli dei ", definizione perfetta

prinz1 (ha votato 9 questo disco) alle 23:49 del 26 giugno 2008 ha scritto:

Strepitoso!

Disco che se avesse avuto la tracklist suggerita dal Farina sarebbe stato da 10 senza dubbio. Io lo considero il migliore dei Led visto che ci sono almeno 4 o 5 capolavori da 10 fisso ("Ten Years Gone", "In the Light", "Kashmir" e, su tutte, la magnifica "In my Time of Dying") più altri pezzi da 9 o 9,5 ("Custard Pie", "The Rover", "Houses of the Holy", "Bron-yr-aur"), ma non capisco l'utilità di produrre un disco doppio il secondo dei quali caratterizzato da numerose canzoni inutili ("Night Flight", "Boogie with Stu", "Black Country Woman"). Comunque il disco lo considero da 9 o 9,5. Il Farina sfodera ancora una recensione impeccabile (con qualche giudizio personale di troppo forse), anche se ha una clamorosa caduta di stile sul "pisciano" che poteva risparmiarsi, ma d'altronde, a lui si può perdonare tutto...

george (ha votato 10 questo disco) alle 20:27 del 26 aprile 2009 ha scritto:

kashmir...

NickRock (ha votato 9 questo disco) alle 16:20 del 30 aprile 2009 ha scritto:

(QUASI) CAPOLAVORO

In effetti è forse l'eccessiva prolissità del disco che alla fine ruba a Physical Graffiti l'ultima stella.. Detto ciò probabilmente l'album rappresenta l'apice del loro percorso compositivo,una uscita monumentale e spavalda atta a ribadire il loro ruolo di band guida nel panorama rock. Le influenze stilistiche sono varie e ottimamente miscelate, peccato per qualche pezzo di troppo (concordo sulla pochezza di Down by the seaside).In ogni caso le luci sono molte di più delle ombre.. Tra un lampo ed un riverbero quì c'è (quasi) tutto. Bella recensione.

PetoMan 2.0 evolution (ha votato 9 questo disco) alle 22:40 del 23 novembre 2009 ha scritto:

GRANDISSIMO DISCO

Direi che il primo disco è spettacolare, il secondo è forse ad un livello un po' più basso. In my Time of Dying e The Rover sono le mie preferite. Poi vengono TRampled underfoot e Kashmir.

Bellerofonte (ha votato 9 questo disco) alle 14:32 del 27 marzo 2010 ha scritto:

gran disco

Beh indubbia la maestosa produzione degli Zeppelin. I primi cinque album sono mostruosi, per qualità, quantità e continuità. Un gradino sopra tutti però IV

bart (ha votato 6 questo disco) alle 22:10 del 8 aprile 2010 ha scritto:

Gli Zeppelin hanno ormai perso lo smalto dei primi 4 album. In questo disco ci sono molti brani trascurabili, non a caso alcuni sono degli scarti dei primi dischi (e si sente). Riescono comunque a piazzare qualche perla come The Rover, mentre pezzi come Kashmir e In My Time Of Dying sono sì validi ma durano troppo. Le lodi che sono state fatte a questo disco sono un pò esagerate.

LOHENGRIN (ha votato 10 questo disco) alle 3:20 del primo agosto 2010 ha scritto:

Musica.

Credo che sia ingiusto parlare di filler. In questo album suonano di tutto, e non dimentichiamoci che gli Zep erano grandi sperimentatori. Io trovo interessante che si passi dal monumento Kashmir alla semplice Bron y aur, che si mescolino con eclettismo sentimenti sensazioni e idee. Perché un disco deve contenere dieci capolavori? Ma dove sta scritto? Si tratta pur sempre di musica popolare, anche se di altissimo livello. Credo che Plant e company avessero davvero qualcosa da dire, e allora non mi perderei nemmeno una nota della loro produzione. I Led sono dionisiaci, l'unico gruppo rock davvero immerso nello "spirito della musica", e in tal senso, ha poco senso fare compartimenti qualitativi coi loro titoli.

PetoMan 2.0 evolution (ha votato 9 questo disco) alle 22:25 del 13 febbraio 2011 ha scritto:

Ben detto Lohengrin, ben detto.

dalvans (ha votato 10 questo disco) alle 14:47 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Portentoso

Il sesto capolavoro dei Led Zeppelin

ThirdEye (ha votato 9 questo disco) alle 19:52 del 15 gennaio 2012 ha scritto:

Insieme a Led Zeppelin III, lo considero il loro apice assoluto.

ThirdEye (ha votato 9 questo disco) alle 19:53 del 15 gennaio 2012 ha scritto:

dimenticavo il voto..

alekk (ha votato 8 questo disco) alle 17:48 del 11 dicembre 2012 ha scritto:

sempre un gran lavoro ma i primi 4 sono meglio di questo e houses of the holy e presence. si sviluppa inoltre la loro tendenza a fare un riff emozionante e su questo costruirci la canzone,vivendo in pratica di quello. dimostrazione ne è kashmir,che seppur splendida non è complessa e potente e varia come una dazed e confused

tonysoprano (ha votato 9 questo disco) alle 19:39 del 26 aprile 2016 ha scritto:

Capolavoro a metà. Il 90 % dei brani è immenso, il resto lo vedo un po' come un filler...