Eagles
Desperado
Molto del buono che ci ha lasciato questa formazione (o meglio che ci lascerà, visto che sono ancora in giro vivi e vegeti a suonare e celebrarsi, pure con delle canzoni nuove in repertorio) sta nelle loro prime cose, in particolare in questo secondo (concept) album, uscito quattro anni prima del grande successo, con annessa esplosione incontrollata dei rispettivi ego, cocaina a montagne, decadenza e ruffianeria pop, il tutto ad inceppare, rallentare ed infine fermare la meravigliosa macchina country rock che erano.
È tendenza comune associare alle Aquile solo l’immagine leccata e snob che inevitabilmente salta fuori dai celebri, vendutissimi ma bolsi “Hotel California” e “The Long Run”. Quelle sono le porte più ampie e scontate per entrare nel loro mondo, ma esiste una maniera più sana e interessante di gustarsi gli Eagles: dimenticare, o meglio accantonare i lavori sopra menzionati e risalire alla prima fase di carriera, assaporando i primi tre album della loro discografia e fermandosi poi lì, ché il quarto lavoro “One Of These Nights” già comincia ad odorare decisamente di edonismo e di pesanti conflittualità interne.
Ed allora se il primo, omonimo album ed il terzo “On The Border” sono freschi ma solo discreti, alternando qualche gioiello a cose ordinarie e di riempitivo, questo “Desperado” è, a mio sentire e piacere, pressoché perfetto, il capolavoro dei quattro giovanotti incontratisi a Los Angeles, provenienti dai quattro angoli del grande stato americano ed accomunati dalla stima per gente come Flying Burrito Brothers e Gram Parsons (con i quali uno di loro aveva suonato), Buffalo Springfield, Byrds, Moby Grape e Crosby Stills Nash & Young..
Le notevoli capacità vocali di tre di loro, con il quarto delegato comunque a fare la parte del leone negli assoli, ed il contributo compositivo distribuito equamente in questa fase di ancor piena democrazia interna (successivamente tramutatasi in diarchia, col chitarrista/pianista Glenn Frey ed il batterista Don Henley a fare il bello ed il cattivo tempo) giocano a favore della varietà, della freschezza e della forza concettuale dell’opera, incentrata sull’epopea western con i suoi fascinosi fuorilegge (desperados appunto, in messicano).
Un’armonica Morriconiana infatti crea subito l’atmosfera giusta nella canzone di apertura “Doolin Dalton”, prima grande vetta del disco. Quest’ode a due delle più efferate e famose bande di pistoleros del West (quella di Bill Doolin e quella dei fratelli Dalton), viene intonata alternativamente prima da Henley e poi da Frey, ma sono le parti corali a quattro voci, sorrette dalle chitarre ed intersecate dall’armonica, a dare autentici brividi. Molto strano che un brano così potente e lirico sia stato lasciato in relativo secondo piano nella loro memoria, fra l’altro ben presto accantonato pure nei concerti.
La breve e sfavillante “Twenty One” che segue celebra i sogni e l’incoscienza dei fuorilegge più giovani. È una solare cavalcata bluegrass, dominata da Bernie Leadon che la firma, la canta e vi scorrazza alla grande con chitarre acustiche, banjo e dobro. Leadon è il virtuoso del gruppo: banjoista, mandolinista, esecutore di pedal steel e chitarrista pulito ed agile, nella migliore tradizione country ma con un occhio interessato al rock’n’roll. Amico ed ex-compagno di Gram Parsons nei Flying Burrito Brothers, di Gene Clark nei Dillard & Clark, di Chris Hillman prima che formasse i Byrds, è insomma uno di quelli “giusti”, uno dei padri del country rock né più né meno, niente a che vedere con il plasticoso mondo delle star californiane. È lui l’uomo che domina strumentalmente i primi album degli Eagles, garantendo la quota country del suono ma poi scontando, con il progressivo accantonamento e la successiva, inevitabile fuoriuscita dal gruppo, la voglia di successo su vasta scala dei suoi due compagni più ambiziosi, un desiderio che implicava giocoforza l’allontanarsi dal “ghettizzante” ambito country rock.
Mentre ancora sfumano i saettanti arpeggi acustici di “Twenty One”, irrompono le scariche elettriche di “Out Of Control”, una rumorosa escursione nell’hard rock’n’roll, pensata e cantata da Glenn Frey per raccontare della calata in paese della banda di desperados, in cerca di donne facili, partite a poker, whisky e guai, se capitano. È una delle canzoni meno riuscite e ricordate degli Eagles, molto lontani dal tipo di energia e potenza necessari all’hard rock: il punto debole dell’album, in definitiva.
Ci si riprende alla grande con una coppiola storica di ballate, entrambe con il merito di avere perforato il tempo fino al nostro presente, graziate anche da infinite cover, come si conviene alle grandi canzoni. La prima di esse “Tequila Sunrise”è interpretata e condotta alla chitarra acustica dall’ispirato Frey, sorretto da armonie corali tanto saltuarie quanto, semplicemente, sublimi. Molto bello anche l’assolo centrale di chitarra acustica di Leadon, impegnato per il resto a dipingere fugaci arabeschi di contrappunto con la steel guitar. Tre minuti di epica descrizione del fuorilegge innamorato, restio a dichiararsi alla sua bella dato il mestiere che fa, e bello pure il titolo… insomma, il country rock al suo meglio.
L’altra ancor più celebre ballata è pianistica e dà il titolo all’album. La conoscono quasi tutti, anche la mia anziana mamma, quindi preciso solo che è un vero esercizio di armonizzazione, attraverso i suoi ben ventinove accordi, e che la notevole interpretazione vocale è opera di Don Henley il quale, descrivendo amaramente la dolorosa condizione di carenza affettiva del fuorilegge, cattivo e brutale ma pur sempre essere umano, riesce a toccare una corda universale ed a cantare questo più che classico argomento nella maniera migliore possibile, sia dal punto di vista musicale che letterario.
Il disco prosegue con “Certain Kind Of Fool” un rock caratterizzato dalla voce tenorile e piena di soul del bassista Randy Meisner e da un robusto intervento di chitarra solista, per una volta opera di Frey e non del solito Leadon, restio ad alzare gli amplificatori a questo livello. Mentre ancora sfuma, vi è l’assolvenza di una parossistica versione strumentale di “Doolin’ Dalton”, quarantotto secondi acustici lanciati alla velocità della luce, uno scherzo virtuosistico di Leadon in tempi in cui ancora lo lasciavano fare.
La scheggia bluegrass di cui sopra fa da raccordo alla pesante intro di “Outlaw Man”, un contributo esterno essendone autore il newyorkese (e Dylaniano) David Blue. Una scelta ovviamente perfettamente calata nell’argomento dell’album, e gli Eagles ne danno un interpretazione oscura e pesante, con Frey a tirar fuori dalla gola il suo timbro più fosco e poi ad imbracciare la solista per mettere di nuovo un po’ di vera distorsione urbana nel serafico incedere californiano dell’opera.
Torna l’amore, seppur ostacolato, nel walzer alla saccarina “Saturday Night”, con Henley che interpreta le strofe per poi lasciare al suo bassista il ponte e raggiungerlo nei ritornelli. Leadon infioretta con competenza al mandolino.
Ma la seconda parte dell’album s’impenna del tutto con il sublime squarcio superwestern, acustico e psichedelico di “Bitter Creek”, capolavoro di carriera di Leadon. Bernie prende a cantare di moniti di vecchi stregoni, assunzioni di cactus allucinogeni (“oh peyote…”) e bivacchi in mezzo al deserto, circondandosi di maestosi ricami di chitarre acustiche: incrocia personalmente una sei corde, una dodici corde in accordatura aperta ed un dobro per gli assoli (e che assoli!). Direi che siamo al meglio del meglio, specie come ipotetica colonna sonora di una serie di canne estive in una notte calda, in buona compagnia e senza nessuno a rompere le scatole. “Bitter Creek” dondola per quasi sei minuti ed è un portento di canzone, da andarci facilmente fuori di testa (alla maniera hippie, naturalmente, niente di più lontano dallo stress urbano).
Da bravo concept album, l’opera si conclude con una ripresa di due fra i temi migliori. “Doolin Dalton/Desperado (reprise)” vede Henley aggiungere ulteriori strofe ai due brani, in un arrangiamento diverso, in crescendo, che vede la sua voce inizialmente “a cappella” raggiunta dagli strumenti acustici e poi dalla ritmica, fino alla catarsi finale col magnifico coro “Desperado” ripetuto ad libitum, in uno sconquasso di piatti e tamburi.
Vera saga delle voci in armonia, degli strumenti acustici, degli umori western, dell’ibrido lanciato dal country verso il rock (o viceversa), “Desperado” è un album d’altri tempi, ma di tempi migliori di questi e di molti altri. Un colosso degli anni settanta, a dispetto di tanti altri, “Hotel California” compreso.
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