R Recensione

9/10

Henry Cow

In Praise Of Learning

“Art is not a mirror – it’s a hammer” (John Grierson)

Rock in opposition, dunque. Sfinge dai mille volti che accoppia eversione di sintassi e di poetica. Un campo minato. Strenuamente guerriglia. Urbanesimo/umanesimo politicamente schierato. Qui teatro anarco-prog che della “frichettoneria” sognante e melodiosa di Canterbury conserva soltanto l’impostazione jazz-rock e, per l’appunto, la frichettoneria. Atteggiamento e sound per nulla graditi in Inghilterra, ma diffusisi capillarmente nel resto d’Europa – Italia (ovviamente…) e Francia in testa – circa circorum da metà ‘70s. Atteggiamento e sound che, soprattutto, trovano negli Henry Cow la pietra d’angolo, la scintilla creatrice, o meglio, unificatrice: risuona ancora oggi, per chi ha orecchie ben allenate, l’eco del Festival RIO (“Rock In Opposition”, appunto) organizzato nel ’78 proprio dalla “Mucca Henry”, e capace d’imporre all’attenzione del pubblico londinese band altrimenti invisibili come gli italiani Stormy Six o i belgi Univers Zero. Non tanto la nascita di un nuovo “genere”, dunque (alla fine, di avant-rock sempre si tratta), quanto il consolidarsi di un collettivo e – non guasta mai – la definizione di un’etica altrimenti nota come “Ideologia del ripudio”: “Le case discografiche ci snobbano? Bene, noi snobbiamo loro e tanti saluti!”. Cool.

Una manciata di musicisti sopraffini, gli Henry Cow. Pezzi da novanta che faranno la storia della resistenza underground, come i celeberrimi Fred Frith (chitarra/violino/quasi tutto il resto) e Chris Cutler (“la” batteria di tutto il R.I.O., se mai ce n’è stata una), ma anche l’organista e clarinettista Tim Hodgkinson, il bassista John Greaves e la donna-fagotto Lindsay Cooper, la prima ad aver dato rilievo a questo strumento in una formazione rock. E in che modo poi… Col jazz-rock spastico e acidulo del secondo album “Unreal” (1974), sorta di “Uncle Meat” ricondotto alla sua dimensione più seriosa, mortalmente ferito alla base dalla scevra mancanza di humour (non ce n’è, noni…) e da qualche prolissità di contorno. Poi l’incontro col trio avant-pop Slapp Happy, la decisione di registrare assieme il pur bello “Desperate Straights” (1975) e, in ultimo, l’idea di fondere sinergicamente i due gruppi. In realtà Peter Blegvad e Anthony Moore (due terzi degli Slapp) non ingraneranno mai per davvero: soltanto la vocalist teutonica Dagmar Krause troverà il giusto feeling con i Cow, aiutandoli anzi a compiere quel salto di qualità che si chiedeva loro da tempo.

Vertice di una carriera e non solo, “In Praise Of Learning” è scrigno severo e livido di un progressive che fa tesoro del periodo bandistico di Frank Zappa (come un po’ tutta la vicina Canterbury, diciamocelo…) ma si apre a tre nuovi imput: il cabaret dell’accoppiata Brecht/Weill, un interesse mai così manifesto per l’espressionismo – tonale e atonale – del primo ‘900, e la manipolazione in tempo reale di nastri. Un’opera epocale, a partire da quel calzino ricamato sulla cover che è sì splendido manufatto pop-art (al pari della scritta “Neu!” con l’evidenziatore, o il pugno radiografato di “Faust”) ma, complice la tonalità rosso sangue, vale quanto una dichiarazione d’intenti.

Trapassata da un magmatico rumore di fondo, “War” è pura, ignea crudeltà. Prog song avvelenata e velenosa, macigno di viscida compattezza. Invito a disseppellire l’ascia di guerra e sfidare a duello i “Masters Of War” di tutto il globo, che pertanto sono pregati di prendere il numerino e mettersi in fila. Una “Volunteers” eseguita da una gang di demoni, trasfigurata in sinusoide infernale ove il blues-rock è un lontanissimo, inutile ricordo. Tutto sembra anzi sul punto di collassare: linea melodica impossibile eppure catchy, tamburi sfondati e fruscii d’ambiente, brevi unisoni a la “Sister Ray”, la batteria zoppicante di Cutler, la voce della Krause (un incrocio fra Marlene Dietrich, Grace Slick e Maga Magò) qui stridula e rancida, l’oboe della Cooper che borbotta a meraviglia con sax soprano e clarinetto. 2:21 di suprema delizia, in ultimo.

“Living In The Heart Of The Beast” (Hodgkinson) è invece mostro di sedici minuti, poema apocalittico e anti-capitalistico (niente a che fare con le utopie escapiste di “Blows Against The Empire”: qui il “nemico” lo si guarda in faccia) declamato con voce fiera e cristallina. Fraseggio in continuo divenire, fluido nonostante le asperità. Obelisco assai poco rock e molto “post” costruito ammassando fanfare militaresche, squarci di futurismo elettronico, “frippianismi” controllati, echi delle Mothers Of Invention e, a 6:34, una citazione dei Van Der Graaf Generator, quasi a voler compendiare, centrifugandole, le spinte più eversive del progressive rock. Tanti i momenti storici: come quando Frith si arma di violino e, duettando con l’organo di Hodgkinson, rievoca addirittura Olivier Messiaen (da 7:21 a 8:40), o il lungo finale – una delle cose più memorabili del progressive tutto – che avanza pigro come un bolero a spirale, man mano gonfiandosi di “voci”, in un lirismo che Mollica non esiterebbe a definire “struggente”: “Now is the time to begin and determine directions/ Refuse to admit the existence of destiny’s rule/ We shall seize from all heroes and merchants our labour, our lives, and our practice of history: this, our choice, defines the truth of all that we do.”

Contenitori di un po’ tutta l’improvvisata, dal free-jazz viscerale all’AACM di Chicago (Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, Lenroy Jenkins), dai rintocchi minimalistici alle cacofonie “kraute”, gli strumentali “Beginning: The Long March” e “Morning Star” sono due gorghi di industrial ante-litteram, battesimi di massa svolti al suono di “edifici nuovi che crollano”; intriganti anche per chi non è avvezzo a rumorismi di sorta, giacchè qui sono la fantasia timbrica e la ricchezza delle soluzioni sonore a catturare l’attenzione. Qualcosa di essenziale. E di decisivo per il futuro: chiedere a Mars, John Zorn, i Royal Trux di “Twin Infinitives”, This Heat, Throbbing Gristle o qualsiasi altro gruppo il cui nome inizia per “T”.

Racchiusa a mò di sandwich fra queste due “catastrofi”, giace, delicata e letale, la romanza “Beautiful As The Moon – Terrible As An Army With Banners”, che fra asimmetrie e mellifluo pianismo (cortesia di Frith) vede, ancora una volta, sbocciare la grazia “frigida” della Krause: è il suo tono stentoreo, appena ammorbidito dallo sciabordio di piatti di Cutler (un maestro), ad elevarsi al di sopra delle contingenze terrene, annunciando alle genti l’arrivo di quell’Apocalisse atta a epurare il pianeta da ogni sopruso di classe (“Take care! Banners of Crimson are raised/ Time solves words – by deeds/ Arise work men and seize the future/ Let Ends begin”). Già, che le fini abbiano inizio…

…E i primi a finire sono purtroppo gli Henry Cow, che nel 1978 dichiarano bancarotta dopo un lento, graduale sfaldamento interno, sinteticamente riassumibile in tre punti: 1) defezione di alcuni membri chiave, come il bassista Greaves – sostituito dalla violoncellista Georgie Born; 2) scaramucce con la Virgin, quest’ultima amorevolmente in pensiero per le vendite non proprio entusiastiche dei loro dischi; 3) un’attività concertistica sfiancante, precaria – ricordiamoci che il gruppo è totalmente autogestito – e confinata all’Europa Continentale, giacchè in patria non se li fila nessuno. Emblematico quindi che “Hopes And Fears”, successore diretto di “In Praise Of Learning” (escludendo il live “Henry Cow Concerts” del ’76), esca a nome Art Bears e sia di fatto l’inizio di un nuovo, straordinario progetto che vede coinvolti i soli Firth (poi con Naked City, Golden Palominos, Death Ambient e un altro migliaio di collaborazioni), Cutler e Krause: un consolidarsi “arcaico” delle premesse avantgarde, totalmente asincrono rispetto alla new wave eppure immerso nella stessa desolazione esistenziale.

Che altro dire allora di “In Praise Of Learning”, uno di quei dischi che definire perfetti è poco? Che dei Cow sintetizza sia l’anima “free form” sia quella asservita al concetto classico di notazione? Che concettualmente è una delle cose più potenti mai germogliate in seno al rock (?) tutto? Naa, troppo scontato. Un disco semplicemente fuori dal mondo, suonato da musicisti che del nostro mondo non hanno mai condiviso etica e stili di vita imperanti.“Goodbye Old World, thank you for the use of your body!” direbbe Robert Wyatt, ma qui non s’è in vena di scherzi. Non troppo, almeno.

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 9 voti.
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Cas 9/10
REBBY 9/10
Flame 9/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 11:00 del primo dicembre 2008 ha scritto:

Album meraviglioso che mi riporta a quando ero un

pischello che saltava i pranzi (facevo un liceo

"sperimentale" a tempo pieno) per accantonare le

2/3 mila lire che servivano per comprare il mio

disco settimanale. Avevo all'epoca una passione

smodata per Wyatt e tutto ciò che gli girava intorno (molti di questi musicisti erano su Rock Bottom). Qualche tempo dopo li vidi anche (gratuitamente)dal vivo in una sagra di paese (o festa dell' unita' o dell'avanti) davanti a

centinaia di persone intente a mangiare il risotto col puntel, molte di loro quasi infastidite non ci fosse la solita orchestra

simil Casadei (se non sbaglio a Cerese di Virgilio

- Mn). Grandiosi! Rece al solito perfetta (quando

poi si è d'accordo anche sui contenuti non resta

che togliersi il cappello, anche se fa un pochino

freddo ghghghgh)

DonJunio alle 20:51 del 5 dicembre 2008 ha scritto:

Questo proprio mi manca dunque me lo segno e faccio gli ennesimi, superflui complimenti a Matteo.

Totalblamblam (ha votato 7 questo disco) alle 15:17 del 16 dicembre 2008 ha scritto:

ce lo l'ho su mp3 e forse per questo non l'ho mai apprezzato come i primi due

vedrò di prenderlo su un supporto più decente

è anche miliare su OR ma Loson è meglio di Nunziata

hahahahah

fabfabfab alle 23:03 del 5 gennaio 2009 ha scritto:

E questo?

Una novità assoluta per le mie orecchie. Bellissimo, il mio Disco dell'anno. Come dite? E' del 1975? Davvero? Vabbè, è il mio disco dell'anno 1975 ...Grazie, grazie Loson.

loson, autore, alle 23:30 del 5 gennaio 2009 ha scritto:

RE: E questo?

Ma prego, carissimo. In effetti quest'album è di una freschezza disarmante, sembra uscito oggi. E pensa che la maggior parte di questi signori continua a incidere e spesso propone cose validissime... Mon dieu, c'est magnifique!

Alfredo Cota (ha votato 10 questo disco) alle 11:43 del primo novembre 2011 ha scritto:

10 su tutta la linea ed in ogni senso: avanguardia, perizia strumentale, voce glaciale e tagliente, testi, impegno politico/artistico mai raggiunto prima... Perfetti

Utente non più registrato alle 1:54 del 5 febbraio 2012 ha scritto:

Che piacere leggere una recensione su questo disco...mi riporta ai tempi del liceo

FrancescoB (ha votato 8 questo disco) alle 11:00 del 18 agosto 2013 ha scritto:

Preferisco "Unrest", ma si tratta di quisquiglie: anche qui siamo ai vertici di tutto il movimento progressive e rock in opposition, musica cerebrale, complessa, piena di chiaroscuri e mostruosamente affascinante. Jazz, rock, avanguardia musicale e politica. Ah, Matteo era un gigante anche cinque anni fa.