Grand Funk Railroad
Grand Funk
Suggerisco un metodo semplice, rivolto a chi segue e si appassiona alla musica, per scoprire se in fin dei conti ci si possa definire rocchettari o meno: basta verificare la propria, personale opinione a proposito dei Grand Funk Railroad. Se li si considera niente di meno che mitici… allora ci siamo, ci si può dare dei rocker senza ipocrisia; se invece il suddetto gruppo è inevitabilmente vissuto come caciarone, rozzo, mediocre, superfluo, di sicuro si ama la musica ma non il rock nella sua essenza. Vie di mezzo fanno fatica ad esserci, o li si venera o li si ignora questi signori, da sempre.
In verità il giudizio su di loro è parecchio inquinato dalla seconda parte di carriera, quella più di successo ma assolutamente meno efficace e importante. La maggior parte delle persone venute a contatto coi Grand Funk solo tramite il mega hit “We’re An American Band” e gli album dal 1973 in poi, li vive come un americanissimo gruppo pop-rock come tanti altri. Un semplice ascolto del loro esplosivo “Live Album” del 1970 farebbe cambiare, a tutti questi, non dico l’indice di gradimento ma quantomeno l’atteggiamento critico verso tale formazione.
Prima di assumere un quarto, superfluo elemento alle tastiere e “legittimare” e banalizzare la loro musica, i Grand Funk sono stati il power trio “bastardo” per eccellenza, il migliore. I Cream oscillavano fra noiose fughe strumentali e pop psichedelico, Experience e Band Of Gypsys erano solo Jimi Hendrix, la sua sezione ritmica poteva fare quel che voleva, tutto era comunque incentrato sul suo personale, magico interscambio voce/chitarra (specie quest’ultima). Questi tre americani invece esplodevano potenza e feeling, tiro sovrumano e genuina carica pur senza dover comporre melodie memorabili, senza dover esibire virtuosismi strumentali, senza trucchi ed effetti speciali, ma piuttosto fondendo insieme un irripetibile ed energico amalgama di personalità e di approccio alla musica.
Il nucleo della iperuranica energia del trio risiedeva nello squassante basso di Mel Schacher. Senza virtuosismi di sorta, suonando reiteratamente in modo preciso e vigoroso le più semplici e perfette linee di basso che si siano mai sentite, quest’uomo aveva soprattutto messo a punto un suono terremotante, distorto e spugnoso, enorme e appagante. Appoggiandosi ad esso volteggiavano i suoi due pards, il veloce e pestone batterista Don Brewer e il chitarrista e cantante Mark Farner.
Quest’ultimo è l’epitome del frontman perfetto per il rock: una voce chiara e squillante, altissima ed espressiva seppur non perfettamente controllata, uno stile debitore fifty/fifty sia al rock dei bianchi che al rythm&blues dei neri (i Grand Funk erano del Michigan, sede dalla Tamla Motown, l’etichetta soul per eccellenza), un fisico compatto e atletico, un look semplicemente tamarro (torso nudo e capelli biondi lisci fino al culo), un chitarrone rumoroso (eufemismo) e sferragliante, dato l’abbondante uso di alluminio per costruirlo, anch’esso tamarro data pure l’incredibile verniciatura mimetica del corpo.
Il disco in questione è il secondo di carriera, non il migliore perché a partire dal terzo fino al sesto il songwriting si farà più efficace e vario ed anche suoni e arrangiamenti miglioreranno (ma qualcosa in potenza comincerà a scemare). L’ho scelto proprio perché è il più grezzo, il più oltranzista e ignorante, con questa vistosa, storica copertina rossa quanto mai appropriata a rappresentare l’energia stellare di questi ragazzi al tempo solo ventenni, chi più chi meno.
È tipica opera registrata in pochissime notti, col gruppo che suona dal vivo in studio, assoli compresi e poi magari si preferisce sovraincidere un po’ di chitarra ritmica sotto l’assolo, invece del contrario. Una serie di rock tellurici (il migliore: “Paranoid”, niente a che vedere con il celebre inno, allora ancora inedito, dei Black Sabbath, che è poi molto meno pesante… sic!) inframezzati da qualche blues (“Heartbreaker” il migliore) e una grande cover della cadenzata “Inside Looking Out” degli Animals.
Su tutti i pezzi, per quanto fracassoni, è sempre presente la forte sfumatura rhythm&blues propria del gruppo, influenza molto più netta del blues di per se stesso ed in definitiva la peculiarità più evidente dei Grand Funk Railroad, degni di essere considerati la formazione rhythm&blues più tosta e pesante di tutti i tempi.
Per ascoltare al meglio il treno in corsa del basso di Schacher mentre non fa prigionieri, niente di più indicato che gustarsi la lunga e stremante “In Need”: più che un Fender Jazz Bass, un turbo compressore, un caterpillar. Da far saltare tuttora in aria qualsiasi discoteca, se qualche disc jokey avesse il coraggio di proporla. Ma torneranno, prima o poi torneranno… tutto torna di moda a questo mondo.
Da ascoltare ad altissimo volume, badando che i vostri due woofer non vi saltino in braccio, spaventati da Mel Schacher.
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