Yes
Union
Tra le discrete ciofeche che parzialmente vanno a inquinare la discografia di questa celebre e storica formazione progressiva britannica, indubbi passi falsi che pur non riuscendo a ridimensionarne i capolavori forniscono validi spunti ai loro focosi denigratori, vi è questa specie di Frankestein di inizio anni novanta. Direi che se la gioca, per il titolo di nadir discografico del gruppo, con lautoindulgente e prolisso Tales From Topografic Oceans del 1974, col distratto e svogliato Tormato del 1979, col modesto e poco incisivo Talk del 1994.
La sopracitata evocazione della ben nota creatura/mostro nata dalla fantasia di Mary Shelley si giustifica col fatto che tale appare questa riunione una tantum, con artificiale amalgama e pure con pesanti intrusioni esterne, delle due diverse fazioni in cui si era da tempo spezzato il gruppo. Vale a dire quella dorigine risalente a fine anni sessanta, made in England e squisitamente progressive, e quellaltra cosiddetta Yeswest aggregatasi ad inizio anni ottanta a Los Angeles intorno al bassista Chris Squire (cui le varie vicissitudini, abbandoni e cacciate di musicisti avevano lasciato i completi diritti del marchio Yes), mezza progressive e mezza AOR in quanto a maniera di concepire la musica.
Otto musicisti accreditati dunque su questopera, due chitarristi due tastieristi e due batteristi mentre per il basso e il canto solista figurano i soli Squire e Jon Anderson. Ma questa è la facciata... la sostanza rivela invece la presenza, da un lato, di quattro brani degli Yeswest, nei quali suonano e cantano in quattro non di più (col chitarrista/factotum Trevor Rabin che lascia a casa il titolare Tony Kaye e provvede lui anche alle tastiere).
In aggiunta vi sono ben dieci brani degli Yes londinesi (che non avendo i diritti sul nome del gruppo si chiamavano al tempo coi loro cognomi Anderson, Bruford, Wakeman Howe), nei quali il basso è però suonato dal turnista Tony Levin, limitandosi Squire a un paio di armonie vocali aggiunte allultimo momento. Dulcis in fundo, per amalgamare (!) tali musiche a quelle più rotonde e radiofoniche degli Yes americani, i produttori del disco pensarono bene di rimuovere buona parte delle partiture di tastiera di Rick Wakeman e di sostituirle con roba ala page suonata da bella gente in servizio permanente negli studi di Los Angeles (tipo Steve Porcaro dei Toto e similia).
Il papocchio risultante si estrinseca in ben oltre sessanta minuti di musica ala Yes, cioè stratificata e rigogliosa, epperò ignominiosamente edulcorata da arrangiamenti e suoni figli più di riunioni di marketing che di altro, con lispirazione e la peculiarità del gruppo bellamente calpestate in favore di non si sa bene quale tendenza da seguire e già che gli Yes ce lhanno un po come caratteristica questa freddezza formale, anche nelle loro pagine migliori (Anderson ha voce eccezionale ma non è propriamente un musicista caldo, e non lo sono neanche i due chitarristi che si danno il turno, specie Rabin, per non dire di Wakeman e Bruford, due macchine perfette ma assai poco sanguigne, diciamo così.
Ripudiato dagli stessi musicisti, che però per ragioni squisitamente alimentari accettarono compatti di promuoverlo con una lunga tournée pienamente riuscita fra laltro, questo Frankestein discografico se ne sta lì, in mezzo alla copiosa discografia della band tuttora in arricchimento. Nessuna delle sue quattordici canzoni può essere ritenuta non dico memorabile, ma neanche importante. Quando i businessmen prendono la mano ai musicisti non cè più arte ma solo mestiere e calcolo. Union ne è uno degli esempi più lampanti.
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