Meat Loaf
Bat Out Of Hell
La recente pubblicazione sul sito di un’ottima recensione dell’album “Thriller” di Michael Jackson mi ha fatto tornare in mente quest’altro superdisco americano, anch’esso dalle fortune commerciali quasi irritanti (a mio sentire) se paragonate al suo intrinseco valore. Per la cronaca, siamo qua arrivati ai quarantatre milioni di copie sparse per il mondo, nonché circa duecentomila all’anno ancora in acquisto, a trentadue anni dall’esordio.
Meat Loaf (traducibile con “polpettone”) è il nomignolo del cicciuto cantante texano (all’anagrafe Marvin Lee Aday) titolare del disco, ma è una definizione perfetta anche del contenuto musicale dello stesso: un’enfatica, logorroica, epidermica, derivativa raccolta di canzoni in sfumata forma di musical che, a dispetto dell’aggressiva ed indubbiamente efficace copertina in puro stile heavy metal, tratta scontati e blandi temi d’amore, mantenendosi a livelli da soap opera.
Oltre al carismatico e dotato cantante, altri due sono i personaggi importanti dietro a quest’album: il pianista Jim Steinman ideatore e compositore di tutto ed il produttore/chitarrista Todd Rundgren. Steinman e Marvin ebbero il loro bel daffare per convincere una casa discografica a finanziare e pubblicare il lavoro, mentre per avere Rundgren dalla loro parte gli raccontarono la balla di avere già un contratto in tasca con la CBS!
Si dovette alfine ripiegare su un piccolo distributore discografico e comprensibilmente i riscontri di vendite furono, nel breve termine, assai scarsi. A questo punto, e curiosamente, fu la Gran Bretagna a fare da cassa di risonanza all’album, “adottandolo” con entusiasmo e determinando un effetto boomerang verso gli USA e poi il resto del mondo.
Misteri della musica… ai discografici coinvolti questa roba era lì per lì apparsa difficilmente digeribile e decisamente priva di attrattive universali. Sarei perfettamente d’accordo con loro (per una volta) ma abbiamo invece tutti torto marcio: la storia racconta che questo disco è andato via come le noccioline, molto evidentemente toccando corde universali. Oddio, probabilmente le stesse di “Thriller”, di Madonna, di Celine Dion, di Whitney Houston, insomma di quel mainstream pop che, almeno in un sito di musica come questo, casca piuttosto male.
Come suona questo disco? In una maniera precisamente definibile: come un parente di “Born To Run” ma con una voce diversa, la produzione ulteriormente enfatizzata a la Phil Spector ed i testi molto più banali. Lo stile compositivo del buon Steinman è infatti scandalosamente Springsteeniano, stante la medesima enfasi eroica, gli stessi cambi di tempo, le stesse pause lamentose, le stesse cavalcate verbose del Bruce dei dischi più orchestrali e trionfali, del tutto contemporanei a quest’album.
Non per niente Steinman sceglie di mettersi da parte col pianoforte per far posto al più dotato Roy Bittan della E-Street Band, al quale è consentito scorrazzare per le canzoni in lungo e in largo, come mai si è potuto permettere con Bruce. Anche il batterista che suona nell’album, Max Weinberg, viene dal gruppo di Springsteen, e così la frittata è fatta, cotta a puntino.
La voce di Polpetta non ha invece, come già accennato, nulla a che vedere timbricamente con quella del boss: è ugualmente potente e temperamentale, ma alta e pulita, indubbiamente una gran voce. L’enfasi e lo stile con la quale viene veicolata dalle composizioni di Steinman sono quelli di Springsteen, precisi, che questo disco potrebbe insomma tranquillamente cantarselo il boss allo stesso modo e nota per nota, solo… abbassandolo di un paio di toni (e soprattutto cambiando i testi)!
E facendo magari togliere la metà dei riverberi: anche Todd Rundgren ha in effetti un suo preciso punto di riferimento in questo lavoro: il wall of sound Spectoriano, quel modo di caricare ogni suono di infiniti echi, tipo fiordo norvegese. In particolare la chitarra del bravo Todd sciaborda in ogni dove per l’album, trascinandosi dietro un ingombrante ed anacronistico fardello di rimbalzi ambientali, del tutto fuori moda al giorno d’oggi.
Tutti i sette brani in scaletta sono assurti alla celebrità, in particolare due: il primo è quello che intitola e apre il disco, quello con Rundgren che giocando di leva e di distorsore inizia il suo assolo di chitarra con una plausibile, ed all’epoca ammiratissima, simulazione del rumore di una motocicletta che sgasa.
L’altro è “Paradise by the Dashboard Light”, un duetto fra Marvin e la discreta cantante Ellen Foley, portato con successo anche su palco ed in video. I due viaggiano affiatatissimi, alle prese con la solita schermaglia amorosa dal sapore politically correct: son lì che pomiciano ma sul più bello lei lo stoppa e gli chiede se l’ama e vuole sposarla, altrimenti nisba. “Let Me Sleep On it…” fammici dormire sopra risponde sempre più deciso il grassone, ti darò una risposta domani… e via così, per la gioia dei benpensanti.
Per molti anni sotto il titolo del disco campeggiava ben chiara la scritta “Canzoni di Jim Steinman”. Era il compromesso trovato fra i due galletti Jim e Marvin, dato che il compositore rivendicava il suo ruolo decisivo desiderando comparire in qualche modo in copertina, mentre la casa discografica premeva verso la più efficace e commerciale denominazione “Meat Loaf”. Ora l’accenno a Steinman in copertina è stato rimosso, c’è stata una causa in proposito e Polpetta l’ha avuta vinta: quest’opera retorica e fortunatissima, fra i dischi più venduti di ogni tempo, rimarrà esclusivamente a suo nome.
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