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R Recensione

6/10

Zolle

Porkestra

Fa strano, per chi conosce Marcello Bellina (leggasi Lan dei MoRkObOt), accostare l’aggettivo “frenetico” alla sua faccia rilassata, come di chi ha trovato nell’assurdo ragione e stile di vita. La lingua italiana, tuttavia, non offre molti altri ripieghi per descrivere un curriculum che, a partire dall’ultimo squillo della band madre (il fenomenale “MoRbO”, 2011), si è infittito e diramato a dismisura, comprendendo esperimenti audiovisivi (quell’“Auge”, pure del 2011, uscito a nome Caith Sith vs. Viscera///, di cui prima o poi bisognerà parlare), curiosi progetti solisti (Berlikete) e progetti paralleli orchestrati in una frazione di secondo (Zolle). Di questi ultimi parlammo, non esattamente con benevolenza, all’epoca dell’uscita del loro s/t d’esordio (2013). Torniamo a farlo ora, con il sophomore “Porkestra”, primo di un trittico che ha visto Marcello impegnato, ad inizio anno, nel supergruppo OssO (MoRkObOt + Eraldo Bernocchi alla chitarra, già attivo l’anno scorso con Obake e nuovamente in pista, nel 2015, anche con Metallic Taste Of Blood: speriamo di parlare presto di tutti), e che dovrebbe vederlo nuovamente nei panni di Lan sul finire dell’anno (l’ultimo squillo fu “Cockputer”, pezzo finito nel secondo volume della Subsound Split Series con i defunti Vanessa Van Basten).

Il suono di “Porkestra”, salta subito all’orecchio, è stato maggiormente lavorato e cesellato di quello di “Zolle”, a tratti davvero troppo elementare per coinvolgere. I brani sono mediamente più lunghi, l’interplay chitarra-batteria saturato, un paio di idee (come il riff elefantiaco, ma ironicamente sudista, di “Porkimede”, Lynyrd Skynyrd riempiti di anabolizzanti e schiacciati da dinamiche metal) si impongono da subito all’attenzione dell’ascoltatore. A tagliare le gambe al disco è, ancora una volta, il sentore di un progetto estemporaneo troppo ludico e divertito per poter ambire ad uno status superiore al divertissement. Non è detto che sia un male, specie a contatto col fracassone death’n’roll di “Porkata”, le storture para-djent di “Porkenstein”, il trogloditico rifferama doom di “Porkeria” o l’autoironica, acida variazione su tempi dispari (cowbell incorporata as usual) di “Porkastica”, forse la migliore della scaletta. Poi però lo svacco, specialmente negli episodi sotto i due minuti, sopravanza con prepotenza il contenuto: in “Pork Vader” sembra di sentire i Fuzz Orchestra rintontiti dalla marijuana, “Porkona” manca di dinamica interna, “Porkemon” seleziona e copia nella catena strumentale i migliori Jawbox, “Porkediem” non va oltre un pur interessante accostamento di distonie sludge e armonie power rock. La conferma arriva negli abbondanti sei minuti conclusivi di “Porkangelogabriele”, quando il brano (un’altra, onesta badilata doom) sfuma gradualmente in un cincischiare di percussioni, campanelli, tom: l’elogio soverchio del cazzeggio.

Qualcosa ci suggerisce che rimarrà tale anche in futuro.

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