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R Recensione

6,5/10

Egle Sommacal

L'Atlante Della Polvere

Forgetfulness, it happens to us all. And me? ...why, I’m the worst one!

Se fra i pittoreschi sbuffi di “Tanto Non Arriva” e le riflessioni panistiche de “Il Cielo Si Sta Oscurando” correva la stessa, marcata discontinuità che oppone esteriorità a introspezione, “L’Atlante Della Polvere” – i cui brani sono stati evidentemente concepiti nelle stesse session del disco precedente – parla la lingua della coerenza. L’aderenza non è solo estetica o stilistica: è sul terreno del metodo che i due dischi sono mutualmente comprensibili. Alberi, piccole pietre, piani geometrici: l’indagine filosofica – come già aveva lasciato intuire il lancinante brano finale de “Il Cielo Si Sta Oscurando”, dedicato al peschereccio giapponese Ryō Un Maru, che sembra oggi sdoppiarsi nelle imbarcazioni turistiche sballottate sul Po – abbraccia il reame dell’universale, dell’animato e dell’animabile. Il nero si spoglia della sua impenetrabilità, sbiadisce in una serie di grigi che contemplano apertamente il bianco: significa forse che l’esplorazione artistica sta dando i suoi frutti?

Guardare il mondo con gli occhi di Egle Sommacal significa, allora, estendere il reame del particolare all’universale o, se preferite, concentrare in un dettaglio tutto il senso del mondo, vero o presunto: come quando un pezzo di carta attraversa la strada spinto dal vento, si ferma pochi istanti su un cespuglio e poi sparisce dietro un angolo (è il titolo del settimo pezzo, un bozzetto di romanticismo agrodolce condensato in trentanove secondi) o si ergono inni a qualcosa che non si ricorda (con la sacralità formale – ma non meno emotiva – di un Carcassi che sia stato spettatore esterno nella Classe de danse). “L’Atlante Della Polvere” è, se possibile, un disco ancora più essenziale, minimale e raccolto de “Il Cielo Si Sta Oscurando”: come nel singolo, “La Città Dei Coltelli”, in cui il fingerpicking à la Ben Chasny mallea i contorni di un dagherrotipo espressionista d’altri tempi, o in “Il Poeta Rheiner Dipinto Dal Pittore Felixmüller (12-06-1925 Berlin-Charlottenburg)”, un rigoroso studio classico la cui seconda metà cavalca l’onda di una repentina, ipnotica impennata lirica à la Stranded Horse. L’inquietudine esistenziale che permeava ogni singola fibra del capitolo precedente si serra attorno al Fahey primitivo di “Fine Di Un Anno (L'Albero Di Natale Artificiale)”, giocata sul filo di una sottile e costante dissonanza, esplodendo poi nell’installazione noise di “Natura I (per chitarra acustica amplificata, ebow, looper)” – continuando a citare Lynch, qui il riferimento prominente è certo Six Figures Getting Sick. La sola “Seravella Nella Neve” si propone come nuova, delicata versione di “Hello Guys”: una narrazione a tratti non fluidissima, ma di ineguagliabile profondità romantica (anche se, sui medesimi territori, le dinamiche dell’arioso swing à la Glorytellers di “Fiori Per Il Tuo Compleanno” suonano decisamente meglio).

Avete presente quella scena di Kynodontas in cui il figlio del protagonista intrattiene i genitori suonando loro un celebre studio di Carcassi? Non fatico ad immaginare, al suo posto, un brano del songbook de “L’Atlante Della Polvere”. Questo significa due cose. La prima: il chitarrismo polimorfico di Egle rappresenta perfettamente i tempi cupi in cui viviamo e la loro tendenza all’incomunicabilità. La seconda: con un po’ meno di accademia in certe soluzioni, il disco sarebbe stato all’altezza del suo predecessore.

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