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R Recensione

6,5/10

Zolle

Macello

Alla fine, non l’avrei mai detto, con il passare del tempo ci ho preso persino gusto, ad ascoltare i dischi degli Zolle: che sono sì, in un certo senso, tutti uguali e tutti ugualmente goliardici, ma sono anche – e soprattutto – tutti inconfondibilmente pop. Heavy pop, si capisce, tracimante di chitarre gonfie e distorte, anthem rock strumentali o quasi compressi in formato da duo, sludge affastellato di intervalli in maggiore e suonato con un perenne, ebete sorriso stonato stampato sul volto. Questo, da un lato, per il record storico. Dall’altro lato, invece, il quarto disco in sette anni di Marcello Bellina e Stefano Contardi, primo squillo lungo dal discreto “InFesta” (2017), racconta di un tangibile per quanto ancora embrionale tentativo di evoluzione in direzione di qualcosa di più e di diverso dalla solita fuitina di distrazione buona per i party alcolici rurali: “Macello”, tra i soliti esilaranti giochi di parole e la barra del situazionismo costantemente sollevata, lascia intravedere il desiderio di presentare gli Zolle come act in grado di dire davvero la propria nella galassia heavy tricolore.

Sarà un caso, o forse no, ma nei ventotto minuti scarsi di “Macello” trovano posto molti dei migliori riff mai scritti dagli Zolle. Le menzioni d’onore vanno al bottleneck zanzaroso di “M’IO” (un’esilarante versione solondziana dei Crowbar) e allo stortissimo funk jawboxiano di “L’AMA” (solo un filo troppo monocorde), ma singoli buoni momenti fanno capolino più o meno in ogni brano del disco, dalla notevole valanga torchiana in lento fading out di “L’AURA” (aperta da un wah che definire ghignoso è poco) all’oscuro chicken picking di “D’ANNATA”, dalle armonie AOR pompate di steroidi in “D’IO” (sembra di ascoltare i Boston che abbiano fatto una cura massiccia di integratori heavy) alle cieche rasoiate sabbathiane in sezioni di 5/4 e 6/4 di “L’ARA”. Paradossalmente, a risentire maggiormente dei difetti di scarsa longevità e profondità del recente passato è proprio il singolo promozionale (e unico brano cantato, seppur vagamente), “S’OFFRE”, davvero troppo elementare e monolitico a dispetto di un ritornello del tutto inusuale, costruito a mo’ di sciarada popolare.

Morale della favola: dovessi consigliare a un neofita un disco degli Zolle da cui partire per un’eventuale esplorazione del catalogo, suggerirei senza alcun dubbio questo.

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