The Colour

Between Earth & Sky

Il rock’n’roll è riciclaggio, da sempre. Anche i grandi innovatori sono sempre partiti imitando chi li aveva preceduti e aggiungendo qualcosa alla formula originaria. C’è però qualcosa che in un buon gruppo ti fa passare sopra il senso di deja vu: la personalità. Poi ci possono essere mescolanze nuove, fusioni improbabili, accostamenti sacrileghi: il fatto è che, in qualsiasi verso la metti, senza imporre la personalità, il carisma, un gruppo non va, e non andrà, mai da nessuna parte.

Copiare e citare, sì, ma con stile e con la capacità di essere credibili: doti di cui difettano pesantemente i The Colour. E questo “pesantemente”, credetemi, è un eufemismo. Un tenerissimo eufemismo.

Non basta mettersi lì e plagiare spudoratamente Rolling Stones, U2 e Led Zeppelin, per essere credibili. È come lo shining, è una scintilla, è qualcosa che si avverte, e l’ascoltatore lo fiuta, quando ascolta il disco, se sei un gruppo o una cover band. E a sentire “Can’t You Hear It Call” l’impressione è quella di sentire un gruppo che copia i Dandy Warhols che copiano gli Stones. E non è un gran sentire.

Ma il punto, più che il chi, resta il come tutto ciò viene fatto: i The Colour si servono dai ricchi piatti offerti della storia del rock come fossero ad un buffet: un po’ di stones qui, un po’ di U2 là, un pizzico di hard rock d’annata e qualche timido accenno new wave. Il piatto servito resta accozzaglia senza filo gastronomico, o, per evadere dalla metafora, senza coerenza musicale.

E viene da chiedersi una cosa sola al termine del disco: perché, a questo punto, non andare a rispolverare direttamente gli originali ? Che qui manca tutto: il sangue, il sudore, la passione. E, se ce lo consentite, nella grande messinscena del rock’n’roll, tra l’attore di razza e il guitto, noi, francamente, continuiamo a preferire il primo.