Gorillaz
Plastic Beach
I Gorillaz sono sempre stati una materia informe sotto tutti i punti di vista: da quello musicale a quello iconografico, sono sempre stati vaghi, unica certezza è che dietro tutta questa macchina c’è quel vulcano di idee di Damon Albarn, che non smette mai di vomitare idee geniali, coadiuvato dal fumettista Jamie Hewlett.
Punto.
Tralasciamo le storielle fantasiose di patti col diavolo, cyborg e racconti epici fatti di rockstar viziate e capricciose (il mondo del rock ne è pieno) con cui Damon gioca, ostenta e calca la mano fino alla nausea (puro divertimento o forte accusa contro uno stereotipo ormai marcio in 60 anni di storia rock? Sarebbe una bella domanda da rivolgere al diretto interessato).
La materia scomposta dall’anti-Demiurgo Albarn è caratterizzata da tutto ciò che a noi poveri indie-ascoltatori-recensori disgusta; Pop e Hip Hop patinato e commercialmente catchy (vi ricorda qualcosa la pubblicità della Zucca/Salvadanaio??), e quella dose di Trip-Hop che aveva caratterizzato il disco d’esordio, qui presente come un vago ricordo che aleggia spettrale lungo tutto l’album.
Dai toni decadenti dell’intro orchestrale, passando per l’hip hop colmo di lustrini di Welcome To The Plastic Beach del magnate (o magnaccio) della black music Snoop Dogg assieme all’Hypnotic Brass Ensemble, e facendo tappa nel deserto arabeggiante di White Flag un qualunque purista dalla testa “indiependente” avrebbe già cestinato il disco e minacciato ferocemente il proprio spacciatore discografico di fiducia.
“Che fai?? Mi prendi per il culo?? Mi avevi promesso un album eclettico ed inafferrabile, invece qui ci sono solamente Snoop Dogg che struscia la faccia su culi enormi mentre biascica qualcosa di incomprensibile!! Ora per farti perdonare mi regali una copia della versione deluxe del best of dei Pavement, che devo sciacquarmi le orecchie da questa monnezza!!”.
Già me l’immagino il suo faccino esile, gonfio e rosso di rabbia mentre sbraita davanti al povero commesso reggendo le sue bretelle fluorescenti, e aggiustandosi il ciuffo sul viso ogni due parole facendo cadere litri di saliva frizzante sulle sue converse sdrucite, rigorosamente di colori differenti.
Se avesse trovato il coraggio di bypassare le trappole per puristi alternativi, avrebbe goduto anche di piccole gemme pop psichedeliche come Empire Ants e On Melancholy Hill, roba per cui gli MGMT non dormirebbero la notte. Avrebbe fatto un piccolo tuffo nel passato con la brillante collaborazione di Lou Reed in Some Kind Of Nature, rivisitato i labirinti wave ipnotici di Mark E. Smith in Glitter Freeze o ripercorso i marciapiedi rock di Portobello Road dei The Good, The Bad & The Queen sottobraccio a Mick Jones e Paul Simon. Oppure avrebbe potuto aprire i suoi orizzonti all’hip hop venato di jazz di un Mos Def in grande spolvero coadiuvato magistralmente dal jazz/funk dell’Hypnotic Brass Ensemble in Sweepstakes, o alla Old School dei De La Soul che incontrano la New School di Gruff Rhys nella semplice ed efficace Superfast Jellyfish.
Avrebbe goduto veri e propri attimi di piacere con la ballata electro-crepuscolare Broken, o si sarebbe commosso con Bobby Womack e l’orchestra VIVA nel gospel Cloud Of Unknowing da strappar via le vene.
Magari Damon, da buon Inglesefacciadaschiaffi che è, si è divertito per 10 anni a prenderci per il culo, magari fa sul serio, magari in tutti gli album dei Gorillaz si condensa tutto ciò che a noi poveri alternativi fa storcere il naso, magari tutto questo suona talmente bene da far gridare ogni volta al miracolo.
Magari Plastic Beach è l’ennesima burla di un inglesotto annoiato fra un viaggio a Mali e una reunion che ha fatto tirare il collo a mezzo mondo, magari questo è solo l’ennesimo grande album dei Gorillaz.
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