Dalek
Abandoned Language
Lo si ricorderà forse come una piccola pietra miliare dellhip hop, questo Abandoned Language del duo di Newark. Paranoico e cupo, sì, brullo ed esacerbato, sì, ma miracolosamente aperto a infinite stranianti suggestioni, poetico e, appunto, linguisticamente devastante.
O meglio, va precisato: i beat scarni e rallentati dilatano gli spazi per il rap social oriented del buon maestro di cerimonia Dalek (never write my songs for consumers, ironic, cuz' I write my songs for heads with phat laces on their Pumas, rima rassicurante per i puri) ma il mondo sonoro che gruveggia sottostante si compone in un clima in parte desueto alliconografia del genere, solleticando il timpano e le sinapsi degli avanguardisti.
Così, se la poesia di fondo quasi rimanda a quel capolavoro intimista che RZA approntò per la colonna sonora del jarmuschianoGhost Dog, il flusso associativo qui conduce addirittura a Cabaret Voltaire, Glenn Branca, Nurse With Wound. Follia? No.
Tutte le 11 tracce (per 63 minuti totali) sono costruite con una sobrietà e un controllo magistrali, e intagliano un ambiente sonoro omogeneo e perfettamente efficace. Pad e archi sintetici, scratch e samples, chitarre e fiati fluttuano plasmati in mezzo ad un magma di noise malato e al tempo stesso morbidamente accogliente. Molta, molta musica, che si muove ipnotica come un mantra e però sa anche accogliere dissonanze corrusche e divagare con dimestichezza sui sentieri dellatonalità.
Tappa semantica imprescindibile per i cultori del genere, Abandoned Language gode di un talento espressivo universalmente comprensibile ed empatico. Un canto dolente e consapevole dalla agonizzante civiltà urbana occidentale, modulato da artisti superbi.
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