R Recensione

9/10

Dalek

Negro Necro Nekros

Come sta l’hip-hop all’alba del nuovo millennio? In quali condizioni versano a fine anni ’90 MC e DJ, personaggi capaci nell’arco di un ventennio di rovesciare come un calzino la musica underground americana e non solo? Scratch corrosivi, ritmi massacranti e sample rivoluzionari conservano ancora il proprio fascino? Una risposta esaustiva non può prescindere da un breve excursus.

A fine anni ’90, la storia dell’hip-hop già presenta molteplici realtà e fasi fra loro antitetiche; e quasi per ogni scena, quasi per ogni artista è possibile individuare il rovescio della medaglia: agli albori, quando prese vita in qualche vicolo del Bronx, fra un Bloc Party e l’altro, l’hip-hop era la musica del ghetto, la poesia della sua disperazione feroce: poteva sembrare assurdo, eppure le arringhe dell’ultimo gangsta disperato di periferia, impegnato a raccontarci di quanto fosse il migliore ed il più forte di tutti, rappresentavano uno spaccato sociale ed umano cui sino ad allora era impedito esprimersi e manifestarsi, davanti al grande pubblico.

L’hip-hop è quindi divenuto il vanto dei player-hater, con corredo di automobili di lusso e gioielleria pesante, ha poi acquisito una dimensione coscienziosa e più autorevole, con la “nuova onda” di messia seriosi capitanata dai Public Enemy (seguiti a ruota da A Tribe Called Quest ed affini), si è infine contaminato con tutto lo scibile umano, diventando anche “bianco” e superando i pur vasti confini della propria terra d’origine, per divenire linguaggio internazionale. Ed anzi, volgendo per un attimo lo sguardo ai nostri tempi, a giochi fatti possiamo affermare le sue evoluzioni in territori r’n’b hanno il diritto di ambire, che ci piaccia o meno, al titolo di colonna sonora mainstream del decennio che sta per concludersi. Ancor più che i nineties, infatti, gli ultimi lustri hanno consacrato l’hip-hop come arte universale, come una forma d’espressione priva di limiti e confini, aperta ad ogni possibilità, autenticamente “pop”. Ma non è tutto qui.

L’hip-hop ha vissuto negli ultimi anni su due binari paralleli, dominando sì le classifiche ma continuando anche a mostrare la propria vitalità, la propria capacità di scardinare le certezze della musica di consumo, perdendosi in una voragine creativa strabiliante, che ha preso vita nell’underground americano e quindi si è diffusa a macchia d’olio nel resto del mondo. Il blues del nuovo millennio mi verrebbe da dire, un blues che raggela tutta la spiritualità candida e carnale del soul in architetture brutali ed aggressive, nei suoi scratch imprevedibili, nel suo “noise” che toglie il respiro. Questo filone underground non può prescindere dal nome di alcuni artisti cardine: primi fra tutti i Dälek, ovvero Will Brooks (MC Dälek) e Alap Momin (The Oktopus), corpulenti afroamericani originari della provincia del New Jersey, capaci di realizzare una sequela di opere che oscillano fra il capolavoro che fa strabuzzare gli occhi, titolo che spetta di diritto al disco in esame, ed il classico LP più che discreto ed in ogni caso capace di collocarsi su standard creativi sempre proibitivi per quasi tutta la concorrenza.

Il debutto della band è datato 1998, si intitola “Negro Necro Nekros”, e costituisce l’imprescindibile punto di riferimento non solo per comprendere l’evoluzione sonora del duo, sempre affascinante e coraggiosa, ma anche per intravedere gli sviluppi di una scena in fermento, che nel decennio successivo amplierà a dismisura i propri orizzonti. Anche grazie a lavori come questo. Il risultato delle commistioni più inedite non può che essere stimolante ed assolutamente personale, se lo chef di turno è un fuoriclasse; e i primi secondi dell’introduttiva “Swollen Tongue Bums” confermano l’ipotesi, lasciando senza fiato l’ascoltatore.

L’impostazione vocale roca ed aggressiva dell’MC, che si sbizzarrisce in arringhe rappate su beats duri, è degna della miglior tradizione hardcore-rap, l’arte di montaggio creativo delle basi richiama alla memoria alcuni imprescindibili numi tutelari (dai celeberrimi Public Enemy ed Eric B & Rakim a sperimentatori underground come The Disposable Heroes of Hiphoprisy): ciò nonostante, parlare di puro e semplice hip-hop è forse riduttivo. Qui non si intravede, fra le mille pieghe del suono, solo la lezione dei grandi del genere: no, i Dälek sono cresciuti con massicce dosi di psichedelia e progressive, strizzano l’occhio al jazz anche nella sua dimensione più free, mostrano una notevole propensione per una forma di “scrittura” decisamente cinematografica, nonché per la tensione impalpabile della musica ambient e del noise, e forse pure per le visioni introverse e lisergiche di Kevin Shields.

I loro sample risultano incredibilmente dinamici ed imprevedibili: ad improvvise impennante di rumore seguono momenti di apparente relax, in cui si sovrappongono eleganti fraseggi di fiati, assoli imprevedibili di batteria e rumori assortiti. Il tutto a ritmi convulsi, senza un momento di stanca. “Three Rocks Blessed”, lievemente più convenzionale, è un altro gioiello caratterizzato da tre accordi di chitarra reiterati all’infinito, su cui si staglia un rap aggressivo. “Images of 44 Casing” porta ai massimi livelli l’eclettismo della band: intro relativamente soft, costruita attorno a poche note di piano e ad una ritmica incessante in 4/4, conduce ad una meditazione filosofica quasi sussurrata che si staglia su ritmi spigolosi. “The Untravelled Road” è costruita su basi di chiara impronta jazz, ove si alternano la voce cavernosa del rapper e le voci squillanti di sax, tromba e fiati assortiti.

La conclusiva “Praised be the man”, quasi il prototipo dell’hip-hop progressivo vista anche la durata, mostra il versante più ambientale e meditativo della band prima di rovesciare sull’ascoltatore dosi di rumori astratti, fiati e psichedelica mutante.

Doveroso infine citare i testi: Oktopus e Dälek portano alle estreme conseguenze una certa tradizione hip-hop da strada, arricchendola tuttavia con riflessioni di impronta quasi filosofica sulla natura del nostro sistema e delle classi dirigenti, attente alla cura dei propri interessi ed invece molto disinteressate rispetto ai destini della c.d. underclass. L’hip-hop dei Dälek mette a nudo la realtà incivile del nostro mondo, la lotta senza quartiere ed all’ultimo sangue, la violenza priva di compromessi.

E le loro parole sono pesanti come macigni, specie nella New York di Giuliani.

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Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 11 voti.
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rael 4/10
loson 9/10
B-B-B 9/10

C Commenti

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simone coacci (ha votato 9 questo disco) alle 10:55 del 26 maggio 2009 ha scritto:

Fenomeni. Grande recensione.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 10:10 del 9 maggio 2010 ha scritto:

Caso più unico che raro, nei Dalek la ricerca sonora (l'aprire le porte dell'hip-hop a nuove esperienze, come già avevano intuito i trip-hoppers inglesi) e le convinzioni radicali di Chuck D (ossia il bignami dell'hip-hop da guerriglia) coesistono "in armonia", nutrendosi a vicenda. Questa è la loro opera prima e, a mio giudizio, il momento più avventuroso - epocale? - della loro intera discografia. Ottimo lavoro, Francesco.