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R Recensione

7,5/10

Aesop Rock

Skelethon

Da lui è praticamente impossibile prescindere, difficile farne a meno. Anche se l’ultimo disco a suo nome è immatricolato 2007 (None Shall Pass), rimane uno degli esponenti più carismatici e longevi dell’intera scena hip-hop alternativa, nonché uno dei più noti al di fuori di essa. L’immaginario collettivo lo reclama. Chiedete lumi in giro, magari all’amico snob che ascolta solo roba agli antipodi, e vi risponderanno: El-P, Clouddead ed Aesop Rock. Una garanzia di qualità.

Capofila e capostipite del genere – gli esordi risalgono alla seconda metà degli anni 90 – e autore di alcune delle opere più significative dell’ultimo decennio (Float, ad esempio, uno dei 133 capolavori selezionati da SdM nell’apposita classifica) , Ian Matthias Bavitz è sotto molti aspetti la personalità cantautorale più spiccata ad aver mai sciacquato i panni alla fonte di questa stimolante commistione di rap sui generis, elettronica e indie pop-rock. Cantautorale nel senso ampio (e migliore) del termine: ovvero un magnete che calamita stimoli, mondi e sonorità a 360 gradi e li rielabora in un universo musicale e letterario unico ed assolutamente personale. Una sorta di equivalente di Tom Waits, di Will Oldham o di PJ Harvey, se parliamo al femminile. Ma nello stesso tempo difficilmente paragonabile. Il suo stile si basa essenzialmente su un’idea d’hip-hop apparentemente chiusa e compatta, in realtà scomposta e rimodellata nelle strutture interne (frasi strumentali, ritmi, strofe e ritornelli), esaltata dall’eccellente lavoro di cernita e ricerca sul materiale sonoro, ottenuto attraverso un certosino intarsio di parti strumentali e sample preziosi ed eterogenei, cesellato da un incessante lavoro sulla qualità degli arrangiamenti (grazie all’uso di strumenti desueti in certi contesti: violino, chitarra acustica blues, piano elettrico, contrabbasso eccetera).

 

La morte di uno dei suoi migliori amici, la separazione dalla moglie, la crisi dell’etichetta con cui era  cresciuto, la storica Def Jux, “congelata” da El-P in attesa di tempi migliori, il divorzio (artistico stavolta) dal suo abituale alter ego, il produttore Blockhead. I cinque anni trascorsi dall’ultimo lavoro non devono essere stati facili e hanno lasciato cicatrici profonde nell’animo del Nostro. Cicatrici che si riflettono, come oblique ombre espressioniste, sulle atmosfere del nuovo Skelethon. Un album cupo e coeso, più tirato ed essenziale rispetto alla varietà cromatica e poliedrica di None Shall Pass. La produzione, sempre di livello tecnico eccellente, è curata dallo stesso Aesop Rock, che si avvale di una sezione strumentale (il trio composto da Alyson Baker, basso e chitarra e cori, Hanni El-Khatib chitarra e cori, Nicolas Fleming-Yaryan, alla batteria) e dell’ottimo contributo di Dj Big Wiz (già insieme nel progetto Hail Mary Mallon, dell’anno scorso) agli scratch. Bavitz ci mostra il lato oscuro di Aesop Rock, indossa la maschera del clown triste, il suo flow, già criptico e tortuoso, baciato da imprevedibili associazioni d’idee e automatismi di scrittura quasi alla Burroughs, è intriso nell’arsenico dell’amarezza e del male di vivere, tenta una fuga da sé, fruga nell’immaginazione alla ricerca di una rivelazione, di una cura nel senso opprimente delle cose.

Una sofferenza filtrata, manipolata alla perfezione in un brano come “Crows 1”, uno dei vertici del suo song-book:  un carillon lisergico, a scandire una lugubre filastrocca canticchiata da una voce femminile (la cantautrice anti-folk Kimya Dawson), introduce un giro dark-blues dall’andatura azzoppata e irregolare. Ma gli esempi non mancano: cascami sci-fi nei sedicesimi fibrillanti, incalzanti di “Zero Dark Thirty” o “1000 O’ Clock”, coi bassi vibranti e gli scratch slabbrati, ambedue profondamente marchiate Def Jux, come pure la drum’n’bass sui circuiti acidi, penetranti e industriali di “Saturn Missilies”, la chitarra garage-beat e i drappeggi gotici di tastiere dell’inquietante “Tetra”. L’innata capacità d’inventare nuove  chiavi espressive galvanizzando vecchi scorci sonici è sempre all’altezza della sua fama: l’innesto su un canovaccio oldschool di staccati di chitarra hard più un’aria electro quasi moroderiana, da colonna sonora anni 80 (“Home Made Mummy”), le fratture ritmiche profonde e le ripartenze brucianti sullo stesso tema (“Grace”), il groove acido e frastagliato inframmezzato da sketch dialogati (“Racig Stripes”), il fraseggio prog sincopatoe sferzato da folate di cori femminili (“ZZZ Top”) , l’incedere stomp per fuzz di chitarra e piano elettrico anni 60 (“Cycles To Gehenna”), l’arpeggio di chitarra indie-pop su break beat (“Leisureforce”). Un’ opera ricca, stratificata, affascinante, che prende immediatamente ma nella quale si entra a pieno solo dopo ripetuti ascolti: un mosaico scuro e contrastato i cui dettagli si rivelano, a poco poco, in tutta la loro bellezza sfuggente.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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kida (ha votato 7 questo disco) alle 17:52 del 2 dicembre 2012 ha scritto:

lo sto ascoltando in questi giorni e mi sta piacendo parecchio, felice di averlo scoperto

daniele colombo (ha votato 8 questo disco) alle 12:13 del 7 febbraio 2013 ha scritto:

miglior disco rap del 2012,senza ombra di dubbio

Lezabeth Scott alle 13:03 del 7 febbraio 2013 ha scritto:

bravo daniele, finalmente uno che ci capisce di rap

daniele colombo (ha votato 8 questo disco) alle 21:50 del 7 febbraio 2013 ha scritto:

ma è un disco fenomenale,davvero. io stesso sono partito scettico,ma ad ogni ascolto emerge un nuovo lato che prima non avevo considerato. è un disco fenomenale nella sua completezza: non solo i beat,ma anche lui e i suoi testi. sarà il periodo di merda che sto affrontando (da decidere poi se effettivamente è periodo o vita di merda) ma trovo questo disco un ottima colonna sonora;è da mesi che lo pompo ed è una meraviglia.