R Recensione

7/10

Doom

Born Like This

Supereroi con super-problemi. Questa è una delle ricette narrative che, auspice Stan Lee, hanno fatto della Marvel quel che è oggi, a partire dall’ Uomo Ragno in poi. E se la cavalleresca vis dei buoni rischia di essere fiaccata da guai assillanti e prosaici (che si aggiungono al peso immane dei massimi sistemi che dovrebbero proteggere) come quelli di tutti noi più o meno comuni mortali, figuratevi cosa dev’essere stata la vita dei cosiddetti supervillain, dei cattivi, anzi dei “super-cattivi” se li ha spinti ad infrangere l’ipocrisia del patto sociale a cui si sono di buon grado sottomessi i loro colleghi e dirimpettai e a giungere alla conclusione che, così com’è, non importa quali e quanti sforzi costino farsela piacere, questa umanità non merita di essere risparmiata.

Fiato ai preamboli per dire che, ci crediate o meno, la storia di Daniel Dumile, rapper, performer e produttore inglese di nascita ma cresciuto a Long Island, assomiglia davvero ad una di quelle saghe a fumetti. E non solo perché ha scelto come monicker il nome di uno dei più famosi cattivi d’ogni tempo (il Doctor Doom dei “Fantastici 4”) e ne ha imitato in scena il travestimento con la maschera facciale di metallo, ma perché segnata da origini e antefatti insospettabili, tragedie, tradimenti e continui travestimenti che lo hanno trasformato in quello che è ora: uno dei personaggi più riottosi, “contro” ed inafferrabili fra quelli si aggirano liberi, armati e pericolosi, in latitanza al confine fra l’hip-hop tradizionale (oldschool, hardcore) e quello alternativo (di casa Warp).

Circa vent’anni fa, non ancora maggiorenne, Doom era un ragazzino ingenuo ed entusiasta del mondo della musica che si faceva chiamare Zex Love X e formava un duo hip-hop, i Kmd, col fratello minore in arte Dj Subroc, cercando di piazzare i propri singoli commerciali su Yo! Mtv Raps e Rap City. Poi, proprio alla vigilia dell’uscita del loro primo album per la Elektra, il giorno da cani che ti cambia la vita: quello in cui il fratello venne travolto da un camion mentre cercava di attraversare una superstrada a quattro corsie. Alle forbici del destino che recide il filo di una giovane vita piena di promesse, s’aggiungono quelle della Elektra che taglia il contratto del gruppo la settimana seguente.

Come molti di noi nelle stesse circostanze, l’ex Daniel e futuro Doom perde la testa, sparisce per quasi cinque anni, vagabondando come una specie di hobo senza più nome, firma, né senso di appartenenza, fra New York e Atlanta e plasmando nell’odio e nell’ansia di rivalsa nei confronti del destino cinico e figlio di troia, ma anche dei bastardi dell’industria discografica, la sua nuova identità di supervillain, fuorilegge e vendicatore del rap. Il resto è storia recente, si fa per dire, storia che ha fatto la storia della musica rap più antagonista e indipendente dell’ultimo decennio: quattro dischi come MF Doom, uno meglio dell’altro, una girandola di progetti e alias paralleli come Danger Doom (con Danger Mouse) e Madvillain (con Madlib) e collaborazioni eccellenti (in area Wu-Tang Clan con Ghostface Killah). In questo nuovo capitolo intitolato Born Like This, cancellato il prefisso MF (che stava per Metal Fingers un altro dei suoi piani diabolici), Doom ci regala un efficace mosaico delle sue peculiarità stilistiche: un sound compatto eppure elegante, contenuto in brani secchi e incalzanti dal minutaggio essenziale e chirurgicamente affilato, equamente diviso fra contaminazioni alternative, hardcore dalle sfumature muriatiche e orientaleggianti di scuola di Wu-Tang Clan, potenzialità e architetture cinematiche stile pezzi di colonna sonora infranta da un proiettile dum-dum, e qualche rilascio più leggero che serve solo a far abbassare la guardia e a catturare in trappola gli eroi (im)belli e buoni del rap-game.

Nel primo filone brillano le gemme di Lightworks, schegge di jingle televisivo sixties processate in meno di due minuti nella calce viva di rumori concreti e progressioni robotiche, e l’inquietante collage poliritmico di Supervillainz. L’urlo dei guerrieri di Staten Island riecheggia chiaramente in brani come Gazzillion Ear, Yessir (il featuring di un certo Raekwon giunge, non a caso, a sottolinarlo), Microwave Mayo (nell’inconfondibile impasto del beat, organo più acid-rock alla Iron Butterfly che sarebbe piaciuto ai nostri) e nella stupenda That’s That che se il nostro non giurasse di averla fatta tutta da solo (testi, musica, produzione) sembrerebbe quasi di scorgerci la mano di RZA.

Un discorso a parte meritano Cellz che si apre col poema “Dinosauria, We” di Henry Charls Bukovsky (a cui è ispirato anche il titolo dell’album) letto dallo stesso autore su scenari Herrmann-iani thriller/apocalittici da “Promontorio della Paura nella città dei morti viventi”, Angelz sul tema funky-orchestrale delle Charlie’s Angels con la partecipazione di Ghostface Killah nascosto dietro lo pseudonimo Tony Starks e Batty Boys spessore anthemico old-school tagliuzzato di break-beat e sospeso da fulminei inserti ambientali. C’è tempo per rilassarsi solo con il soul-jazz di Ballskin e il rappin’ femminile su beat-exploitation di Still. Concedetegli quaranta minuti della vostra vita e questa è la volta buona che passerete al lato oscuro della forza. O perlomeno non la smetterete più di fare il tifo per il “cattivo”.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 17:27 del 6 luglio 2009 ha scritto:

Per il momento, secondo disco hip-hop (o chiamatelo come volete) dell'anno, appena dietro Dalek.

simone coacci, autore, alle 17:30 del 6 luglio 2009 ha scritto:

RE:

Bravo. Abbiamo pensato la stessa cosa. Te l'ho mai detto che ti voglio bene? Virilmente eh! Come un vero alemanno ehm...volevo dire, un vero uomo.