Death Grips
Exmilitary
Death Grips it's not a rap group, it's scientific research group.
Vi conviene prenderli in parola, e non fare scherzi, se non volete brutte sorprese. O belle, perché no, dipende dai gusti. D’altronde basta dare un’occhiata alla faccia che (ci) mettono in copertina o ai video che postano sul loro sito (www.thirdworlds.net), come se fosse un canale di trasmissione d’emergenza in un mondo prossimo alla catastrofe, per capire che questi tipi non appartengono alla stessa categoria di un Kanye West “il mio lato oscuro: il musical” o di un Lil B “sono gay (nel senso di felice) e me ne vanto”. Questo collettivo underground formatosi in una specie di hangar abbandonato (una succursale dell’Area 51?) in quel di Sacramento per effetto della collaborazione fra Mc Ride, il beat-maker Flatlander e il batterista math Zach Hill (più i contributi di tali Info Warrior e Mexican Girl) rifugge e demolisce ogni tentativo di definizione. E si che blogger e stampa alternativa, come spesso capita di questi tempi, si sono letteralmente sbizzarriti: dalle più fantasiose come “Rza in stress post-traumatico” o “Ol’ Dirty Bastard che ascolta i Fugazi mentre fa a pezzi lo studio dei Portishead con una sega elettrica”, fino a quelle più impersonali e aritmetiche (“Edgar Allan Poe + NIN”).
Exmilitary è un disco che fa del reducismo militante e del terrorismo sonico uno stile di vita, una scientifica strategia multimediale. I Death Grips sono i disertori, i sabotatori, i kamikaze e il frutto perverso di quest’epoca di violenza catodica in cui le guerre si combattono in prime-time, fra consigli per gli acquisti e siparietti soft-core, per far schizzare alle stelle gl’indici d’ascolto dell’economia globale e i nemici vengono creati in studio, dietro le quinte, e poi macellati in diretta tv - perchè non sono come noi, sono cattivi, peggio delle bestie, e poi se la sono voluta loro con l’11 settembre – per evitare che un regolare processo ponga la pleonastica questione sulla legittimità dell’uso (e l’abuso) della forza. È Travis Bickle che dà fuoco al suo taxi con qualche crasso politicante parolaio dentro e poi crivella di colpi la sua immagine allo specchio, John Rambo che non si fa catturare dagli ex colonnelli dell’esercito e dalla propaganda reaganiana. Sono drogati di sangue e di cordite che schiumano rabbia e caricano a testa bassa contro obiettivi attentamente pianificati. Il termine di paragone più confacente alle loro incursioni dinamitarde sono gli Odd Future (OFWGKTA) per la connivenza fra attitudine street-punk, hardcore digitale, sonorità elettroniche classificabili nell’alveo rap d’avanguardia e performance art semi-amatoriale da tubo internettiano, ma senza la macabra goliardia di Tyler & C, con un puntiglio da tecnici di laboratorio impegnati a decomporre l’hip-hop fin nelle sue particelle atomiche e minimali per poi ricostruirlo come macchina da guerra pronta a guidare l’assalto ad un tempo futuribile e distopico che s’approssima silenzioso stringendoci d’assedio con la sua manovra a tenaglia.
Il rappin’ di Mc Ride è gutturale, urlato, sguainato come una baionetta montata su un fucile a canne mozze e ingrana le marce più alte su beat esplosi e frammentari, fuzz elettronici e frequenze audio disturbate, riff di chitarra noise e post-core come i sample che minano dall’interno “Klink”, tranciante come la ghigliottina che scandisce il chorus di “Guillotine” o il groove furibondo e spinato di “Beware”. Si, perché i brani dei Death Grips conservano, per ammissione degli stessi musicisti, un’idea di struttura ricorrente e un loro modo infernale di fare presa sull’interfaccia mnemonico dell’ascoltatore, un esempio su tutti: il reggaeton/dancehall da serial killer di “Lord Of The Game”.
Altrove le atmosfere si fanno più rarefatte e sci-fi, meno aggressive ma ugualmente claustrofobiche, come nel cyber-punk stile Def Jux dell’ottima “Culture Shock” o in “I Want It, I Need It (Death Heated)”, carpenteriana nel senso più cinematico del termine: la percezione del pericolo imminente per un manipolo di rinnegati soli contro tutti, assediati da una minaccia oscura e invisibile. E poi prosegue senza esclusioni di colpi con il grind-rap mitragliato in sedicesimi di “Blood Creepin’” o “Thru The Walls”: gli Atari Teenage Riot paracadutati nell’isola penale del Bronx, come Jena Plissken, circondati da facce nere, occhi bianchi, sguardi ostili e costretti a suonare almeno un po’ rap se vogliono portare a casa la pellaccia. Anche se il vertice dell’album lo toccano, probabilmente, con il mosaico dissonante, il collage tenuto insieme col filo spinato di “Spread Eagle Cross The Block” che salda il basso e la batteria jazzati, la chitarra tarantiniana e frammenti appena percettibili dei Beastie Boys di “No Sleep Till Brookyln”.
Uno dei dischi più devastanti e clandestini del 2011: preparatevi all’impatto.
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