Shabazz Palaces
Black Up
Al cospetto di cotanta grazia si fa pressante limpulso di passare in rassegna labc dellabstract hip-hop, anche solo per individuare una manciata di fonti luminose con cui orientarsi nella nebbia: i primissimi Dälek, innanzitutto; lalgebra IDM domiciliata Warp degli Antipop Consortium; la galassia post-hop originatasi da quel Big Bang denominato Anticon; il retrogusto jazz che informa il sound di Kill The Vultures e ancor prima dei Digable Planets (non proprio abstract, ma tantè ), vecchio trio hip-hop in cui militava il producer/mc Palaceer Lazaro. Influenze rimasticate, digerite, in ultimo imbrigliate fra i solchi mutanti (giacchè si fanno beffa di struttura e percorsi canonici, dilatandosi a mò di pupilla verso continui ma mai forzati mutamenti di prospettiva) di questo stupefacente album, esordio degli Shabazz Palaces sulla lunga distanza dopo i due EP innominati del 2009.
Erratici quanto basta per mantenersi avvincenti, Lazaro e il suo complice Tendai Maraine (percussioni) stavolta sbancano alla grande. Non cè rima in Black Up che non sia bislacca, non cè beat che non suoni eccitante, sinuosamente angolare: un complesso di sinapsi malfunzionanti, errori di sistema (il virus glitch che manda in tilt le pulsazioni di Free Press And Curl), materia(le) celebrale la cui consistenza latamente pop viene però raramente a mancare, vuoi per merito degli occasionali vocals del duo femminile THEESatisfaction (Endeavors For Never), vuoi per lorganizzazione della texture (Are You Can You Were You) e del flow (lintricato gioco di allitterazioni culminante nellintonazione innaturale di high su Youology). Campioni vocali ondivaghi percorrono in lungo e in largo i solchi, evocando poltergeist da supernatural horror (An Echo From The Hosts That Profess Infinitum) o fotografie ingiallite di soul divas (Recollections Of The Wrath). Nellepifanica The Kings New Clothes Were Made By His Own Hands è addirittura una centrifuga in reverse a generare, per sovrapposizione di strati di suono, un idioma capace di coniugare spigolosità avant-hop e melodia; le scansioni industriali di Yeah You, invece, incorniciano un rap dilatato, nel ritmo e nella cadenza, fin quasi a lambire il ralenti afono di un Tricky.
Sì, così suonerebbe Maxinquaye se venisse inciso oggi. Daltronde le affinità col rospo di Bristol non si riducono alle ambientazioni cupe, alla predilezione per la bassa battuta, alla sensibilità nel creare collage sonori che aggroviglino silicio e liane, rifiuti industriali e fiori rari, manipolazioni digitali e percussioni/cori tribali. Laltro nodo gordiano è il desiderio latente (ormai naif?) di ricongiungersi con le radici, con quegli ancestors che la concrete jungle ha prima ingurgitato e poi espulso sotto forma di statuette ornamentali per case radical chic. Se non si fosse capito, il collante di Black Up è lafrocentrismo. Non a caso, gli Shabazz Palaces dal vivo si presentano spesso con volti truccati e copricapi tribali: una prassi che ricorda tanto le performance di Derek Jarman (Art Ensemble of Chicago) quanto e qui il legame si fa più stretto i comizi spoken word dei Last Poets, vessillo di dialettica orgogliosa (ancora il call and response di Free Press And Curl) e severa militanza. E se, per fortuna, la seriosità ha fatto il suo tempo (lultimo minuto di Swerve The Reeping Of All That Is Worthwhile sembra proprio sdrammatizzare la jazzoetry del combo newyorkese, inserendola in un contesto space age pop), permane il carattere ritualistico dellesperienza, sintesi di mimetismi autocompiaciuti da intellighenzia 10s e ansia di rigenerazione, gingillarsi beat poetry bagnato di estasi sacrificale (Put minds in for a fresher world/ Old school hood nigga press and curl/ Eyes like moons when I kiss my girl/ Get lucked out, wish I was in Africa/ Konjo, Konjo, Konjo, Konjo, Konjo).
A fine sbrodolamento, due restano le certezze. 1) Figlio del nostro tempo, ma di esso non schiavo: Black Up è la prima, decisiva rivelazione avant hip-hop del nuovo decennio. 2) La Sub Pop ha guadagnato un sacco di punti (doh!).
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