Real Lies
Real Life
Il definitivo capitolare del balearic beat, rievocato in un rituale sciamanico e gettato tra le strade di Londra, oggi tenera/spietata cicatrice della grandiosa ferita che fu. Nessuna tentazione hypnagogica: il raccordo è con l'urbanicità, col concetto di realness che, mutuato dall'hip-hop, è qui piegato alla romanticizzazione del dettaglio. Un vagare tra rovine postmoderne mischiandosi al flusso della notte: Odissea motificante, nondimeno purificatrice. Post-ice, family of white lines and The Irish Times / The men who drink in A-road pubs and rave flyers / All lost in the same sea / I hear them say its all yours, maestro / if you just give in to me / Give in to me. Celebazione gonfia d'amarezza e d'amore, che non teme la derisione poiché incatenata a una visione tardo-adolescenziale nella quale concetti come ridicolo o stereotipato assumono il potere di simulacri, affettivi o meno. But I still walk the same road at night / Watch the same rain melt the same lights / Bag on my shoulder and a pocket full of rage / How many late nights does it take you to change?
Nell'intervista rilasciata a DYM Magazine, i tre Real Lies hanno preso le distanze da tutto ciò che di musicalmente rilevante è accaduto a Londra negli ultimi quindici anni. Atteggiamento spavaldo (un tempo la norma tra i musicisti pop anglosassoni), irritante, tinto di quella spregiudicatezza che, a seconda delle preferenze, è percepita come manifestazione di carisma o di ruffianeria. Eppure ciò che mi colpisce di loro è la studiata naiveté con cui conducono il gioco, quel fiducioso/rassegnato rifugiarsi nella meraviglia di un contesto da troppo tempo imbrigliato nel cinismo. In questo senso, l'associazione tra lo spoken word di Kev Kharas e il rap di Mike Skinner (The Streets) non fa' una piega: entrambi, a loro modo, disillusi cantori dell'orgoglio working class, del mondo notturno dei raver, della metropoli e dell'umanità variegata che la anima. Un sentimento che permea, a diversi livelli e sfumature, altre espressioni della scena britannica degli ultimi anni: Burial e King Krule, tanto per fare due nomi non così distanti - per quanto assurdo possa sembrare - dal trio di North London.
Su Real Life l'arrendersi innanzi al quotidiano (il quale, in ultimo, si riveste di Mito) assume i connotati sonori di un'euforica/malinconica esplorazione del passaggio di testimone tra '80s e '90s, con annessi prodromi della rave culture. Il canto/producing di Tom Watson e i beat/strumenti di Pat King dipingono scenari eterei, debitori tanto della deep-house classica (il discorso aperto di North Circular) quanto del piglio dance dei Beloved (la forma-canzone di quasi angelica perfezione World Peace, la sensualità di Gospel) o dei Pet Shop Boys periodo Behaviour (il primo singolo Deeper, originalmente uscito nel 2012), pur non difettando di venature baggy (One Club Town), Uk Garage (Lover's Lane) e dancehall (Dab Housing). Scenari nei quali il borbottìo di Kharas interagisce magnificamente con le altre fonti sonore (i rumori ambientali di Blackmarket Blues, le chitarre nella conclusiva Sidetripping), in particolare trovando un invidiabile equilibrio con le melodie vocali di Watson (Seven Sisters).
La sequenza di brani memorabili è impressionante e così il feeling, a suo modo straniante, catartico, del tutto aderente alla contemporaneità. La (auto)produzione non tira a lucido, ma se possibile acuisce la sensazione di dispersività, ed è quello che deve fare. A palesarsi pertanto non è il link con la cristallina organizzazione del sound di tanti (eccelsi) act electro-pop, bensì con la sporcizia grime: rimproverare al gruppo questa scelta, auspicando una futura pulizia che sistemi le cose al secondo giro (manco si stesse parlando di un disco lo-fi), significa aver inquadrato la loro proposta secondo canoni forse non appropriati - non necessariamente sbagliati, soltanto incapaci di generare connessione e complicità.
E di complicità, almeno finora, la stampa inglese ne ha dimostrata parecchia. Suppongo che il processo d'identificazione con la realtà evocata dai Real Lies sia assai più facile, quasi automatico, per chi vive in contesti analoghi e prossimi al proprio vissuto, ma non è da escludere un pollice alzato anche di Pitchfork, in virtù della credibilità street ostentata dal trio. In realtà una voce contraria si è levata pure in terra albionica, e piuttosto decisa: DIY Magazine (citata in apertura a proposito dell'intervista) ha liquidato il disco come little more than a cover-up for a musical direction thats lacking in any discernable identity, dimostrandosi piuttosto insofferente sia in merito alla questione spacconeria sia, più velatamente (e avendo la creanza di subordinare il tutto all'inconsistenza musicale: (...) snark at London all you like, lads, but youre aping the worst depths of its vintage shoppers retro obsessions), al loro insistere sull'epica londinese (mumbled lyrical content that comes off like a thinkpiece hastily scribbled in the wake of a first visit to Dismaland).
In tutta franchezza, non credo affatto che i testi siano così scialbi. D'altronde, l'accusa di semplicismo o di pretenziosità resterà sempre l'arma segreta da sfoderare contro chi accarezza l'idea di liriche ambiziose, volte a incapsulare un'epoca (love in the decade with no name), e in un certo senso è giusto che sia così. Piuttosto il livore, esternato nell'articolo e condiviso da altri osservatori, fa' riflettere sulla presunta impossibiltà, per la musica indipendente, di tornare ad essere generazionale (che mi pare sia l'obiettivo esplicito dei Real Lies): in tanti ne reclamano la centralità, l'incidenza sulle scelte di vita (un po' alla Smiths o alla Replacements), salvo allontanarsi stizziti nel momento in cui si compie un tentativo in questa direzione. Il che potrebbe essere un segnale di quanto, alla prova dei fatti, gran parte degli appassionati non voglia (o non senta più il bisogno) che la musica parli della loro vita; oppure quale conferma che il nostro grado di scaltrezza (o di sfiducia) nei confronti del medium in questione è ormai talmente elevato da portarci a respingere ogni pretesa di ricondurre il reale a un unicum stereotipico (cioè la premessa di ogni retorica generazionale).
O ancora, molto più semplicemente, evidenza che nel tessuto cicatriziale dell'indie odierno trovano ormai rifugio diverse generazioni - dai quattordicenni ai cinquantenni - di cui, soprattutto le più recenti, sempre più sbilanciate verso letture personalizzate e accessorie (termini da intendersi nelle loro accezioni più neutre) del fenomeno pop. I Real Lies, pur prendendo le mosse da un microcosmo ben delineato geograficamente e temporalmente, hanno l'aspirazione di universalizzare il messaggio. Una sfida persa in partenza, sembrerebbe. Ma per quanto ingenua, non è questa la vera stramberia: semmai quella di procedere non aprendosi all'esterno, bensì in senso contrario, stipando per quanto possibile il mondo entro i confini di una Londra le cui strade, come arterie pulsanti, scandiscono il ritmo e gli stadi dell'esperienza umana. Not nailing myself to the cross / But what beautiful proof of God she was bofonchia goffo Kharas su Naked Ambition, mentre una voce femminile s'insinua nel background, chimera irraggiungibile. Un Purgatorio, la loro too real city, dal quale non è impossibile intravedere, di sfuggita, squarci di Paradiso.
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