R Recensione

7,5/10

Wolf Alice

My Love Is Cool

La capacità di riallacciarsi a un discorso bene o male iconico, non solo soffiando nuovo respiro in un polmone atrofizzato ma addirittura captando il fascino sottile, l'attraente, da oggetti di per sé poco avvezzi a simili tributi, per poi ricombinarne le sfumature in un gesto che dell'originale esalta e imbastardisce l'estetica. I Wolf Alice, liberi di non crederci, fanno tutto ciò. Due Ep (“Blush” e “Creature Songs”, rispettivamente 2013 e 2014) e ora l'album “My Love Is Cool” che esordisce al secondo posto nella UK Chart (ma nel giro di quattro settimane già sceso alla trentottesima, com'era prevedibile): tanto basta alla stampa specializzata britannica per montare un caso forse sproporzionato rispetto al valore della compagine composta da Ellie Rowsell (voce, chitarra), Joff Oddie (chitarra), Theo Ellis (basso) e Joel Amey (batteria, cori). Eppure la sostanza c'è, e sopratutto la chiarezza d'intenti: come per ogni opera che si rispetti, vale il principio “non tanto il cosa, quanto il come”. Nella corsa agli anni '90 che caratterizza buona parte delle proposte odierne in terra albionica (la fiorente scena di Birmingham) e statunitense (troppo lunga la lista dei nomi...) il quartetto di North London, coadiuvato da un veterano dello studio di registrazione come Mike Crossey, si ritaglia uno spazio piccolo ed essenziale, immune da sovrastrutture, un luogo dove riplasmare le fonti alternative/college rock a stelle e strisce “liberando” il potenziale sonico da vincoli geografici o temporali.

Ascendenze nobili (Pixies, Breeders, Juliana Hatfield) e altre – almeno per chi scrive – meno nobili (Throwing Muses, Hole) sono come scomposte in un campionario di pose e infine riassemblate secondo una sensibilità dolce, ora abbrunita da piaciosità shoegaze (la nuova versione di Bros, definizione di suono “aperto” se ne esiste una), ora resa abrasiva da chitarrismi in controtempo (Fluffy) e rimescolamenti nella struttura (i due ritornelli della filastrocca You're A Germ, l'armata krauta che si scontra col rifferama hard nel nuovo singolo Giant Peach). Scomparso ogni residuo wave (si ascolti l'essenziale She su “Blush”), ora il centro della scena è occupato da pruriti “innodici”. La riproposizione di Moaning Lisa Smile (da “Creature Songs”) risponde a siffatte esigenze (ve lo ricordate il pogo?), pure se la sua dialettica esprime carattere sottilmente “procedurale”: ossia mostrare come sia possibile annebbiare l'epicità di un riff post-grunge con echi e pedaliere vaporose, sulla scia dei tardi Swervedriver ma senza chiamarli in causa per direttissima.

Non pensateli però limitati stilisticamente, i nostri ragazzi, ché quasi ogni canzone qui contenuta brilla di luce propria. Tipo Freazy col suo refrain sincopato e ludicamente pop, mistress solare della quale è una gioia rimanere schiavi. O ancora Lisbon, dalle increspature “stereolabiane”, che a un ritornello vero e proprio preferisce scariche di feedback e coretti accessori. Per non parlare dei due esemplari più caratteristici: gli Xx in versione folk di Turn To Dust (splendido modo di cominciare un disco), e il dream-pop di Soapy Water. Proprio quest'ultima coppia di brani è particolarmente indicativa per saggiare il range timbrico e gestuale della Roswell, capace di passare da vette cristalline/folkie tinte di vibrato a un bisbiglio lontano, poltergeist fanciullesco. E qualora non bastassero, sappiate che ogni pezzo viene approcciato vocalmente in modo differente, privilegiando di volta in volta urletti schizoidi, collage di sussurri e voce “piena” (il cerimoniale di Silk), intrecci corali (The Wonderwhy) o interventi della seconda voce maschile, quella del batterista Amey, che si permette pure di tenersi un pezzo tutto per sé (la pastorale, fragile Swallowtail).

Nonostante tutto, ciò che preme agli Wolf Alice è rendere la Storia materia viva, fondamenta sulle quali innalzare un (minuscolo/universale) sogno, sceneggiare un coming-of-age che nelle liriche della Roswell fiorisce in esuberante riconciliazione con il/la sedicenne che ancora vive dentro ognuno/a di noi (“Teach me rock'n'roll” implora la cantante nella traccia nascosta, bedroom tape catturato su registratore portatile), pur non risolvendosi in monocromatica celebrazione di spensieratezza. La parabola delle sorelle Lisbon de “Il giardino delle Vergini Suicide” viene eletta a metafora di un'esistenza che si regge su fragili equilibri e paure ancestrali (“Keep your beady eyes on me / To make sure I don't turn to dust”), l'urgenza di esprimersi (“She needs a lover to escape her father and mother / She hopes for some other way out of the hole / She's over-achieving, chasing her dreams and / Coming down slowly, yeah it's out of control” da Moaning Lisa Smile) e l'indefinibile sensazione di minaccia che l'accompagna (“Anxiety's grip is always waiting to take me / Sits in my stomach, I fear it's starting to shape me / It's hard to live when you're scared to die” da Soapy Water). Un'adolescenza “mitica” ma già contaminata dal disincanto, dal pericolo, dalla violenza. E se nell'illustrarla il linguaggio utilizzato si mantiene su un registro colloquiale, a tratti persino banale, il suo dipanarsi tra luci e ombre si scopre affine tanto al capolavoro di Jeffrey Eugenides quanto all'Andrés Barba di “Agosto, Ottobre”.

Risulta perciò meno spinoso, viste le prove in nostro possesso e già passate in rassegna, capire come mai i Wolf Alice fin da subito siano stati oggetto di reazioni “estreme”. Non è tanto - o non solo - la superficiale accusa di passatismo/revivalismo, che pure è una delle motivazioni principali per cui tanti - specie gli orfani degli anni '90 - gradiscono le loro canzoni. E' il loro ingenuo (ma fino a che punto?) porsi come medium “salvifico”, come esperienza ormai preclusa ai più, a scatenare l'amore o l'odio incondizionati. Il loro non è il ”gallagheriano” vantarsi di essere l'ultimo baluardo della genuinità del rock come forma d'espressione, piuttosto la glorificazione della rock band come intreccio di dinamiche umane, entusiasmo infantile, mitologia, lotta per la sopravvivenza, il tutto alla faccia degli hater (e qui scatta la tenerezza che provereste alla vista di un cucciolo di labrador che goffamente tenta di salire gli scalini di casa). Nella loro missione di ricreazione del Mito, così come illustrata in apertura di recensione, determinazione e naiveté vanno a braccetto. Musicisti provetti, scaltri conoscitori della materia, eppure in brodo di giuggiole come una banda di quindicenni al momento di salire sul palco di Glastonbury 2014 (concerto splendido, peraltro), manco avessero finalmente tra le mani il loro Santo Graal. L'imbarazzo nelle parole di Roswell a introdurre l'esibizione (“Hello, this is very scary... If we break down in tears it's because this is our dream come true and we're very nervous!”) dice molto - ma non tutto – di questo combo, anzi forse svia dalla complessità del loro approccio compositivo/realizzativo. Eppure, il timore di salire su un palcoscenico importante non è forse mai stato articolato in modo così pudico e, a modo suo, amabile.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Cas alle 22:10 del 6 agosto 2015 ha scritto:

niente male per davvero! approfondisco gli ascolti ma già al secondo ci sento davvero tanta roba qui dentro grazie della dritta.

loson, autore, alle 18:15 del 8 agosto 2015 ha scritto:

Mi fa' piacere, Matteo. Il disco è passato sotto silenzio qui da noi, oserei dire "inspiegabilmente" ma un mezza idea me la sono fatta.