White Lies
To Lose My Life
White Lies: il nome è già una dichiarazione d’intenti, mentire strizzando l’occhio di nascosto ed incrociando le dita nelle tasche, come almeno una volta abbiamo fatto tutti noi da bambini.
Si parte à rebours, la gestazione del primo lavoro del gruppo inglese si apre con “Death” che ricorda troppo da vicino l’intermezzo dei fumatori fuori dalle porte degli ospedali degli Editors, in attesa di un climax che sembra non arrivare mai, ma che quando si presenta si dimostra capace di smuovere i piedi grazie ad una simbiosi basso-batteria di vecchio stampo.
Continuano i debiti: “To Lose My Life” sembra riprendere una svogliata sessione ricreativa tra Chris Martin, Dennis Leigh e i New Order, , aggiungendovi un po’ di dance, scelta che ne fa il primo singolo estratto e tutto sommato un buon biglietto da visita, senza però tracciare particolari tratti distintivi tra la miriade di band inglesi e non che hanno scelto la stessa impronta, tant’è che il tiro cala per “A Place To Hide”.
Quando i toni si fanno più intimisti con “Fifty On Our Foreheads”, quasi una short story di Hawthorne, e “Unfinished Business” il trio londinese si libera dall’imperativo di dover star dietro a tutti costi a certi stilemi cosiddetti “indie”, si intravede la credibilità: organo iniziale e suoni ovattati che ben introducono un grottesco quadro, con poche ma buone pennellate/schitarrate.
“E.S.T”. e “From The Stars” sono atmosferici riferimenti ai testi di Robert Smith, attualizzati con melodie più da (Bloc) Party che da funerale, buona però la scelta di non esagerare con i violini e sintetizzatori.
“Nothing To Give” è l’apice del gloomy, claustrofobico shoegaze alla Slowdive, ove la voce di Harry McVeigh riesce ad aggiungere personalità e condurre con stile sobrio al termine dei quasi cinquanta minuti: “The Price Of Love”, incalzante elettronica ed ottima scelta per chiudere un disco in cui una delle parole più ricorrenti è “fear”.
I White Lies non hanno paura a guidare l’ascoltatore dandogli subito punti d’appiglio a partire dal titolo del disco To Lose My Life, testi sentimental-noir, una geometrica e rigorosa copertina (forse un po’ troppo Vnv Nation) ed i tre video realizzati con un buon lavoro di regia, trench scuri che ci riportano con l’immaginazione ad una Manchester post industriale: purtroppo solo con l’immaginazione, ci sono echi degli anni ’80, c’è un basso che ammicca a Peter Hook, ci sono ritmi incalzanti ma non quanto basta, il trio londinese sembra proprio aver paura di volare ( Fear of Flying era il precedente nome della band, sarà un caso?), o forse solo di osare, osare di più, partire da una camera troppo stretta, guardare dalla finestra e però poi spalancarla, bisogna ammettere però che ci avevano avveriti: bugie bianche…quindi innocue.
Ci avverte il cantante con la title track : “I was always careless as a child”, ne apprezziamo quindi quella che sembra spontaneità, un esordio tra le righe anche se alcuni avevano urlato alla best new thing.
A fine gennaio arrivano al primo posto delle classifiche Uk, tra qualche anno dove saranno?
Io di sicuro adesso ad ascoltare gli Ultravox…quelli veri.
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