R Recensione

7,5/10

New Order

Music Complete

Ecco “l'invecchiare con stile”, ecco “l'affondo piazzato con disinvoltura quando nessuno se lo sarebbe aspettato”. Hook definitivamente out, la Gilbert definitivamente in, Sumner e Morris mercuriali/sempiterni (la voce del primo non sembra invecchiata di un solo giorno), Tom Chapman confermato al basso, più l'inossidabile Phil Cunningham a far da tappabuchi: questi i New Order allo stato attuale, capaci di rinverdire i fasti di un passato che definire soltanto “glorioso” è criminale. Finalmente liberi dal dovere, diciamo così, “morale” di pubblicare il materiale mediocre delle ultime session con Hooky, adesso si guarda avanti (cioè indietro) e ci si riafferma per quello che si è: icone. Si ha voglia di ballare e di far ballare, di far scendere qualche lacrimuccia ai fan più o meno attempati, di elargire qualche sorpresa ma, più di ogni altra cosa, di ribadire la paternità di un sound del quale si sono appropriati a centinaia: chi utilizzandolo come base per sviluppi inediti, chi tentandone una gioviale - e in fondo adulatoria, celebrativa - replica del Dna.

Incorniciato dall'ennesimo artwork di Peter Saville, “Music Complete” riposiziona con garbo il cuore del loro sound all'altezza di “Technique” (1989), innestando sul muscolo pimpante orpelli e “segni” (uno su tutti, l'intro di Singularity: il sound di “Ceremony” ricostruito al laptop) caratterizzanti altri stadi del loro percorso artistico. Non una rinascita vera e propria come poteva esserlo stato “Get Ready” (2001), ma ugualmente suggello, in un paesaggio culturale assai mutato, di un'indomita voglia di lasciare il segno.

La ballata sintetica Restless ci aveva già trafitto quest'estate col suo passo spedito, La Roux ai cori, intarsi melodici strasentiti ma, ugualmente, tra i loro più pregiati. Ora l'opera di sgretolamento di ogni scudo emotivo prosegue con una Unlearn This Hatred (Tom Rowlands dei Chemical Brothers a co-scrivere e co-produrre) che, vischiosa e acid, fa coppia con i pianismi balearic di People On The High Lane, riportando alla “Summer of '88” anche chi, come me, era ancora troppo pargolo per poterla vivere (o perlomeno per leggerne sulle riviste, sognando a occhi aperti). Il minutaggio dei brani s'allunga, le derive alt-dance la fanno da padrone (l'odissea “post-moroderiana” di Plastic, l'intricata Singularity ancora con Rowlands), ma non tolgono spazio all'epica chitarristica di una Academic, o ancora di una Nothing But A Fool non eccelsa ma che, nelle sue copule senza ritegno tra gli ultimi Joy Division (il basso a tratti s'appella alla partitura di Atmosphere) e le voci black di Dawn Zee e della ritrovata Denise Johnson, trova un perverso, curioso equilibrio. Proprio quest'ultima, che aveva collaborato con Sumner fin dal progetto Electronic condiviso con Johnny Marr, e che ancora prima aveva giocato un ruolo di tutto rispetto per Primal Scream e altre band del giro madchesteriano, resta uno dei legami più solidi con la stagione d'oro a cavallo tra '80s e '90s: momento cruciale per la musica britannica, ora teletrasportato nel 2015.

La mente s'offusca, il corpo si muove in automatico. Ecco i colori esplodere e la spigolosità delle forme smussarsi nella già classica Tutti Frutti, forse il vero schiacciasassi dell'album: kitsch malinconico a metà tra Relax (Frankie Goes To Hollywood) e la loro Mr. Disco, le cui fragranze italo trasudano non solo dagli intermezzi spoken word in italiano, ma soprattutto dagli svolazzi d'archi e dai salti di ottava del basso, mentre l'implacabile ugola della rossa sorregge un Sumner stordito, confuso (“Life is so crazy these days / I don't know how to adjust / Are we the master or slave? / Do we need passion or lust?”), la cui unica consolazione resta il sapere che “You've got me where it hurts / But I don't really care / Cause I know I'm OK / Whenever you are there / You take me to a place / I always wanna go / You always make me high / Whenever I feel low”. La drammaturgia di Stray Dog è l'altro momento spiazzante: prima l'overture quasi espressionista, poi l'entrata di un modulo ritmico impostato sul techstep e Iggy Pop che recita, con voce bassa e roca, un testo molto intenso di Sumner (prologo alla sua autobiografia ormai pronta per la pubblicazione?), tra mugugni e ringhi appena sopra la soglia d'udibilità; la processione procede, implacabile, tra sinfonismi, sghignazzi sinistri di synth, e addirittura una sezione dove si fa largo un riff d'elettrica doppiato da un pianoforte vagamente blues. Della serie: “Volevate la sorpresa? Tiè!”

Nonostante la sua peculiarità, il brano rispecchia un sentimento ambivalente, a metà tra lo sconforto e l'eccitazione, che attraversa l'intera opera. Persino il finale leggerissimo, l'arioso pop spumeggiante di Superheated, con Stuart Price ai comandi (recuperare la recensione dell'ultimo Everything Everything per il suo curriculum) e la voce di Brandon Flowers dei Killers a porgere omaggio, tradisce la malinconia per una storia d'amore finita male (“I see your make up on the shelf / In a photograph of someone else / And it breaks me up like I don't exist /Did we ever love, did we ever kiss? /Do you ever listen to what I have to say?”) e per la consapevolezza di esserne la causa (“Sometimes I wake up as angry as hell / I feel deserted, I feel unwell / But it's not your fault, no not at all / I was the reason for our downfall (…) / You want your life back, girl I'm not a thief / You told me that it's over and that you were gonna leave / Now that it's over / It's over, it's over, it's over”).

Non che questa ambivalenza sia una novità nella scrittura di Sumner, da sempre attento a scardinare dall'interno le logiche della pop song. Vuoi azzerando la portata emotiva di una condizione tragica, vuoi lasciando intravedere l'ironia dietro i meccanismi e i cliché dei sentimenti, vuoi attraverso la “semplice” discrasia tra testo e musica, il suo modo di scrivere, semplice ma subdolo, resta marchio di fabbrica. In “Music Complete” la sensazione di straniamento è acuta, quasi che l'abbandono di Hook abbia, nonostante le mazzate verbali (e forse non) che i due si son tirati per anni, lasciato un vuoto da colmare. Un vuoto che la realtà esterna può solo amplificare, nella sua indecifrabilità: “Restless, I feel so restless / And in this changing world / I am lost for words / I feel so restless / Ain't got no interest / I couldn't care less / Can't be a success”. Ed è così che la fuga nel reame dell'effimero, all'inseguimento di una chimera a noleggio, transitoria come il battito d'ali di un colibrì o l'high di una pasticca, vale più di mille adattamenti. “Non mi interessa il nome vero. Non mi interessa la vita reale. Quella canzone. E tu? Sei tutti i frutti.”

Music Complete” è la conferma ultima del Mito. Non se ne sentiva il bisogno, eppure era necessaria. E che sia così bello (almeno tre-quattro pezzi degni del loro repertorio maggiore, altrettanti di ottimo livello), intrigante, familiare e nuovo a un tempo, pare quasi una benedizione.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 5 voti.
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C Commenti

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nebraska82 (ha votato 6,5 questo disco) alle 13:28 del 9 ottobre 2015 ha scritto:

un buon disco, con 3-4 brani piacevoli, loro sono sempre molto parchi e si sono giocati le ultime cartucce con intelligenza nella parte terminale della loro carriera.