Primal Scream
More Light
Twenty-first century slaves, a peasant underclass
Mi trovavo a parlare con amici dei Primal Scream e del loro ultimo album More Light, quando una ragazza, che non li conosceva (!?) mi chiede "ma che genere di musica fanno?". Gocciolina di sudore sulla fronte collegata al ghiaccio lungo la schiena, respiro profondo e "mah, guarda, sostanzialmente rock, ma privo di barriere e con vagonate di allucinogeni". La guardo con la coda dell'occhio, non mi sembra soddisfatta e furbescamente viro lattenzione sul tempo inclemente di questautunno infinito, "...e pure questa l'ho sfangata".
Nel tempo (10 LP in più di 27 anni di carriera, mica bruscolini!) i Primal Scream hanno saputo inventare e reinventare praticamente tutti i generi di distruzione di massa nella costante ansia di non proporre mai qualcosa che suonasse come già sentito, quantomeno non da loro. E se Screamadelica è uno degli album più famosi e basilari della musica indie-pendente tutta, non sono da disdegnare, ma proprio per niente, altri album fondamentali quali Vanishing Point e XTRMNTR.
More Light è il ritorno sulla scena dopo ben 5 anni dalluscita del dignitoso Beautiful Future, ed è un ritorno in pompa magna. Album per certi versi barocco e ridondante, certamente ambizioso ma efficace. Album di denuncia, fortemente politicizzato (la morte della Thatcher è marketing puro per il disco), ma allo stesso tempo pieno zeppo di gorgheggi e sollazzamenti di frivola ispirazione. Limpressione, dopo la prima manciata di ascolti, che non sono comunque cosa facile data la quantità di carne al fuoco (se si considera la versione deluxe, tra disco 1 e 2, 19 tracce, 21 se si ascolta la versione per il mercato giapponese), è che il rock mediamente psicotico e visionario britannico degli ultimi 25 anni (loro e poi Stone Roses, Manic Street Preachers, Kula Shaker, My Bloody Valentine, Oasis, Kasabian e così via) sia stato condotto a sintesi nel tentativo, forse un po' pretenzioso ma sicuramente deciso e credibile, di chiudere un cerchio.
Si comincia con il sax smaliziato, ballerino e gaudente di 2013 (così come si faceva per consolarsi della perdita del compianto punk) introdotto da sample di (sembrerebbero) vuvuzela di sudafricana memoria, che spianano la strada a echi di chitarre ipnotiche distorte in ambiente rarefatto, su un ritmo veloce e incalzante e un cantato grintoso in salsa agrodolce. Si, le chitarre le ha curate proprio Kevin Shields dei Mbv, un nome che più di una volta ha incrociato la strada di Bobby Gillespie e compagni nel tempo. Insomma, quei pezzi che vorresti ascoltare almeno 10 volte al giorno perché non ti basta mai. Vale il prezzo del cd. Di tutti e due, se si considera che il remix curato da Andrew Weatherall, presente nel secondo cd della versione deluxe, è anchesso di rara e definitiva bellezza. Il testo è tra i più duri di sempre ed è una denuncia della gente di oggi, addomesticata dalla tv e inerme di fronte alle ingiustizie e ai soprusi costantemente perpetrati.
River of pain è un altro piccolo capolavoro. Un riff-mantra acustico accompagna la voce sussurrata di Bobby all'interno di atmosfere mistiche e tribali dal sapore mediorientale. E cupa e malinconica e ricorda (il riff di chitarra acustica) i Depeche Mode a impatto zero e le sonorità magmatiche e fluide dei Morphine depurate da elementi brass, almeno fino a quando (intorno al terzo minuto) non entra in scena la Sun Ra Arkestra, a dare nuova linfa (e tanti fiati) ad un brano che ha due o forse tre vite nel corso della sua piacevolissima durata. Culturecide è un funk psichedelico (attenzione, non ho detto p-funk!) eseguito in tandem con Mark Stewart dei The Pop Group, dal piglio hip pop (specie nella parte finale) anche se, a dirla tutta, un po' insipida e che anche quando detona non lascia grossi ricordi. Hit void è un buon esercizio shogaze, tanto amato, con una discreta muragliata di suoni pesi dalloltretomba. Micidiale poi il momento psycho-jazzy di Tenement Kid. Il rock dal sapore glam di Invisible city così come lo psyco-tango di Goodbye Johnny li lascerei al sorcio anche perché dietro langolo cè il groove rude e un po mistico di Siderman, che merita decisamente di più facendo da degno apripista allaltro capolavoro dellalbum Elimination Blues. Allucinazioni craute su un ritmo tribale lento e un cantato al limite dellesoterico con eco da caverna, dove Bobby duetta nientemeno che con Robert Plant, loro vicino di casa in quel di Londra. Il pezzo continua fino ad arrivare a note di organetto che danno il via al lamento straziante di una chitarra delta garage da pelle doca. Dura quasi sei minuti, è un martellamento continuo alle sinapsi. Favolosa.
Sorcio, hai ancora fame? Beccati allora questo pezzo di (post) punk, probabilmente scaduto, che a te male non farà (Turn each other inside out). Discreta, sebbene un po telefonata e lievemente ampollosa, larabeggiante Relativity. Il primo momento riflessivo e intimo arriva invece dopo 11 tracce (Walking with the beast), ed è bello scoprire che gli insegnamenti di Simon & Garfunkel possono ancora emozionare gente del calibro dei Primal Scream che con questo pezzo sembrano tributare loro un sentito ringraziamento.
Lalbum si chiude con quello che è il secondo singolo estratto (il primo è 2013), Its alright Its ok. Una ballata calypso-gospel, sospesa tra leuforia di un Elton John adrenalinico e i Rolling Stones goderecci. Sarà perché non riesco più di tanto a sintonizzarmi con gli umori dei radio-tele ascoltatori, ma non comprendo la volontà di voler puntare su questo pezzo quando lalbum ha ben altro da offrire. Sembra però che le radio inglesi passino a manetta il pezzo, quindi a non capire sono solo io.
Se doveste poi incappare nella versione per il mercato giapponese, troverete due tracce bonus (I want you e City Slang). La prima è un alt blues energico, molto White Stripes, mentre il secondo è una semplice e poco entusiasmante digressione hard rock/pop punk.
Attenzione però a non sottovalutare il secondo supporto della versione deluxe. Latmosfera si fa più evanescente e impalpabile, con massicci riverberi in bella mostra a fare da contraltare a strutture leggere e sfumate, e tra ritornelli accattivanti (Nothing is real/ Nothing is unreal), macabri vaneggiamenti dream pop dalla forte carica emotiva (Requiem for the Russian tea rooms) nuovi tentativi di funk alla mescalina (Running out of time, dove Curtis Mayfield non può non venirvi in mente), sortite space-delta-blues al limite della psycobilly di Dirty Beaches che piacerebbero credo molto anche al nostro Above the tree (Warm Tamer e Theme from More Light) si arriva al precedentemente citato, ottimo, remix di 2013, dove leffettistica elettronica che sembra rubata al miglior Giorgio Moroder introduce le chitarre che dallo shogaze riveduto di Shields della versione originale passano ad una altrettanto efficace nuova coloritura new wave.
Ottimo lavoro ragazzi. Cinque anni dattesa ci stanno tutti se poi il risultato è un album che è destinato a durare nel tempo e a entrare di diritto nelle cose migliori della loro carriera. Senza alcun dubbio.
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