R Recensione

6/10

Joakim

Milky Ways

Arrivato al terzo studio-album, il guru dell’elettronica francese Joakim Bouaziz, per gli amici Joakim, continua a giocare con l’imbastardimento dei generi e degli stili musicali, assecondando la tendenza verso l’irriducibilità ad etichetta e il crossover furioso della musica ’00. Joakim, fondatore della Tigersushi e già autore di importanti remix per Royksopp, Tiga, Simian Mobile Disco e Cut Copy, sa, evidentemente, come operare l’amalgama senza cadere nel pastiche, coadiuvato da una band che lo segue anche nei tour (quando l’ensemble diventa Joakim And The Disco) e fa sentire qui il suo peso.

Marchio importante di questo lavoro, incentrato sull’idea di gioventù e di selvaggio, è difatti il recupero di un’elettronica ‘suonata’, dove la batteria abbia un ruolo predominante rispetto al beat e dove i campionamenti e gli effetti sintetici siano usati per dare spessore agli strumenti piuttosto che per sostituirli. Pur partendo da questi presupposti sommamente inclini a un approccio ‘live’ e all’ibridazione, fa comunque specie essere aggrediti in apertura di disco da una “Back To Wilderness” quasi stoner, tra batteria sudata e chitarre scartavetranti, con disturbi elettronici e un synth iperuranico che non danno tregua per otto lunghi minuti di brutalismo spaziale. Selvaggio = barbaro.

È il parigino stesso, d’altronde, a dire che i giovani artisti d’oggi sono come archeologi impegnati nel disvelamento di cose da dire e modi di dirle ricoperti da strati di sovrastruttura consumistica. E allora non c’è modo migliore per sbaragliare la contemporaneità più deleteria che togliere polvere da una gamma ubriacante di generi, in un autentico attacco d’arte (no, non quello lì) su base elettronica: 8-bit con sfumature robotiche à la Kraftwerk e patinatura vintage in “Ad Me”, french-touch adiacente agli Air in “Glossy Papers”, electro-funk con spunti glam in “Love & Romance & A Special Person”. I 50 minuti di “Milky Ways” sono un’esplosione disgregante di suoni e maniere, in un’alternanza di colori vivaci (“Medusa”, dove su base techno si affastellano cacofonie campionate e sparpagliate come coriandoli) ed episodi terrigni, ruvidi, quasi psichedelici (la metallurgia e l’elettronica industrial di “Fly Like An Apple”, con un dribbling Settanta/Ottanta pauroso).

Mentre il finale cede leggermente e non esalta nell’omaggio new wave di “Travel In Vain” e nell’ipnotismo dream-pop di “Little Girl”, si possono godere a pieno le campiture buie di “King Kong Is Dead” (sembra di sentire i Giardini di Mirò), e l’acid-house di “Spiders”, tra i pezzi elettronici dell’anno, nel suo riprendere i New Order ibizechi di “Technique”, farli dialogare con l’italo disco e convergerli verso i Royksopp. Joakim scarta i generi come birilli, elude l’insidia dell’autogol e fa centro entrando in porta con il pallone. Ma la compiaciuta sapienza nel palleggio non macchia quello che rimane un lavoro di spessore.

 

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