Miami Horror
Illumination
Quattro anni per scriverlo, dieci mesi per registrarlo: il debutto degli australiani Miami Horror è il prodotto di un tour de force insolito nel panorama mordi-e-fuggi dell’elettronica (e della musica) odierna, tanto più se si tiene conto che dietro, in questo caso, spingeva (ma evidentemente non troppo) una major. Il punto è che Ben Plant, anima dei Miami Horror e mente unica dell’eccellente Ep “Bravado” (2008), è un testardo perfezionista, tanto da chiamare attorno a sé una band vera e propria per dare più pienezza a un disco che sarebbe dovuto essere quello della vita.
Ed è un disco della vita: fantastico, ma smagliato dalle fascinazioni diverse e dagli stimoli sonori persino contrastanti che hanno segnato il panorama electro-pop degli ultimi anni. E allora l’amore dichiarato per il french touch convive con l’infatuazione glo-fi (tre brani sono composti con Alan Palomo, aka Neon Indian e Vega), tocchi vintage di synth in aria di Moroder con ammicchi indie-cool ai Phoenix e ai crossover anni 00, retrofuturismo disco-pop con epici trionfi dance-y 'so nineties'.
Sotto, una scrittura pop da far invidia ai conterranei Cut Copy, certamente presenti, con i New Order sullo sfondo, nell’irresistibile “Sometimes”. La prima metà del disco, in particolare, non sbaglia un colpo, in un turbinio di melodie killer e ritmi scuoti-chiappe che travolge, ma non senza una patina nostalgica: l’omaggio chillwave di “Infinite Canyons” (presente “Mind, Drips” da “Psychic Chasms”?) fa capire come lo scatenamento dei Miami Horror nasconda spesso un animo tormentato e pensoso, vedi i ricami notturni e la chitarra acustica che scandiscono “Moon Theory” – roba che si potrebbe ascoltare all’infinito – o il riff circolare e l’atmosfera da fine estate di “Summersun”.
Paradossalmente è proprio l’ultra-nostalgico e schivo Palomo che spinge sul pedale dell’euforia, come nella sbrilluccicosa disco-new pop ’80 di “Holidays” (m-e-r-a-v-i-g-l-i-a), o nello space-pop corale di “Ultraviolet”. Se poi a queste esuberanze si aggiungono il disco-funk di “I Look To You” (Daft Punk + Justice) o il tripudio à la Pet Shop Boys periodo-“Very” di “Grand Illusion”, si capisce che le gamme ‘emotive’ di questo “Illumination” sono piuttosto disorientanti. Ce n’è per tutti, insomma: ci sta pure che una folker svedese (MAI) canti con accento stile Fever Ray la robotica french house di “Echoplex”, o che il beat lasci spazio a una fisicissima batteria sferzante (“Soft Light”).
Ecco, spazio per troppo, forse: la genesi travagliata del disco sembra inficiarne qua e là certi tentati connubi, quasi che Plant avesse voluto tributare troppi amori. Al di là dell’apertura glo-fi totalmente incongrua (segno, però, che il micro-genere è ormai uscito dall’underground per diventare stimolo e ‘maniera’ anche a livelli mainstream), ci sono altre divagazioni (la dance progressiva di “Illuminated”) che appaiono fuori fuoco. Difficile, comunque, non trovare qualcosa di cui innamorarsi. E non pensare che se tutto ciò che arriva dalle alte sfere del pop da classifica fosse di questo livello, sarebbe una goduria folle.
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