Kedr Livanskiy
January Sun
Parlare della nascita di un nuovo genere è sempre ardito, almeno fintantoché una grande rivista online (Pitchfork) o un grande critico (Reynolds) non ne riconoscono i segni, condividendo poi (e, a loro modo, imponendo) etichette, classificazioni e, nel migliore dei casi, riflessioni degne di questo nome. Dunque non mi arrischio a farlo, ma mi limito a scrivere queste righe come tentativo di esplorazione e ipotesi di indagine, prendendo come pretesto un (lungo) Ep di una giovane musicista russa, Kedr Livanskiy (née Yana Kedrina).
I sei pezzi che lo formano, affiancati da due versioni riviste dellincipitaria Razrushitelniy Krug (Destructive Cycle), si muovono in uno spazio che non è quello glo-fi, ma che in qualche modo da lì sembra prendere spunto: una voce a bassa fedeltà e non a fuoco si muove su unelettronica retromaniaca, riplasmata su qualche scarto primi anni 90 (dunque, rispetto allondata chillwave, si è leggermente mossa in avanti la macchina del tempo) la cui aura è ricostruita su sintetizzatori depoca. Kedr Livanskiy, alle spalle esperienze in band punk e sludge metal, è nata proprio nel 1990, post-muro, sostanzialmente post-URSS, sicché si capisce come il suo immaginario sia quello euro-dance di metà decennio, slabbrato e sbrodolato in lunghe jam ad alto tasso melodico e assieme ipnotico (dice, in unintervista: «The EP is a mix of my teenage years watching MTV»: e guardare MTV era, allora, un discreto intontimento).
Ecco, rispetto ai movimenti underground di 6-7 anni fa, mi pare che questo (e questa generazione successiva rispetto ai Palomo e ai Bundick) abbia la necessità di minutaggi più dilatati: prima si costruisce una base che stordisca nel suo loop avvolgente, e poi ci si gioca sopra con la voce, quasi improvvisando, o, almeno, dando a chi ascolta questa sensazione, per un effetto da elettronica progressiva, però pop: fortissima preminenza ce lhanno le tastiere, spesso aeree e spaziose come da riferimenti nineties, mentre la patina lo-fi, indispensabile effetto simulatore del passato irrecuperabile (ma anche no: la musica serve proprio a tentare di riportarlo a galla), è soprattutto applicata alla voce così nelleccellente Razrushitelniy Krug (Destructive Cycle), o Sgoraet (Burning Down), nella quale si entra attraverso un tunnel di textures che riproduce quei giochi ottici di intubamento così frequenti nei videoclip metà 90, mentre la Livanskiy ci ricama qualcosa tra gli Snap e un canto popolare kirghiso.
Ma sono anche i beat, spesso minimali e davvero frusti, a dare unaria da grigia dismissione sovietica, come da copertina, così aumentando il grado di malinconia (January Sun), per colonne sonore da parchi giochi della provincia russa sotto cieli piatti e biaccosi (la primavera di April non porta certamente rinascita alcuna, semmai la seppellisce).
A me lep piace molto, e ha ricordato (a cominciare dalla tastiera di Winds of May o dalle riprese drumnbass in Otvechai Za Slova (Keeo Your World)) gli esperimenti di Teresa Winter in Oh Tina My Tina (2015: sottovalutato), a proposito della quale avevo fatto il nome di Maria Minerva (forse la capostipite di questa nuova corrente tutta femminile); tanto che, giusto per allargare un po la costellazione, il nuovo disco di Scraps (TTNIK) si inserisce perfettamente nel solco, con pezzi come questo (ma ancor più la spettacolare "Harlequin", tra le canzoni dell'anno).
Il disco di Kedr Livanskiy, in parte anticipato su Bandcamp nel 2015, è stato pubblicato questanno su vinile dalla 2MR di Mike Simonetti (anche Italians Do It Better, espertissimo di rétro) e Mike Sniper (anche Captured Tracks: stesso discorso). Ecco la generazione '90.
Tweet