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R Recensione

6,5/10

Umberto Maria Giardini

Protestantesima

"Chi odia il bianco e ama il nero"

Come se si convertisse a nuova religione (malgrado la conversione covasse già da tempo, o fosse già avviata). Eppure, nel cambio di dottrina, rimane il solito Umberto Maria Giardini: mai ortodosso, eretico, luterano, dissidente che dice le cose come sono, o come crede che siano, senza paura e senza miele. Si toglie denti, e sassi dalle scarpe. Resta povero di peli sulla lingua: “torno quando andrà di moda il porno a scuola”, “i bambini che domani diventeranno trans”, “ti faccio più male di un palo infuocato nel culo”, e così via, più o meno dritto all’obiettivo. Protestantesima è questo, ed è il suo ruvido ritorno, a due anni e mezzo da La Dieta dell’Imperatrice. Protestantesima libro sacro, decalogo di comandamenti: dieci tesi invece che novantacinque, profondamente affisse sui muri della chiesa discografica italiana, sempre così docile, ammiccante. E lui, Giardini, viceversa, controcorrente e discorde.

Con l’abbandono di Cristian Franchi alla batteria e del professor Parmeggiani alle tastiere si temeva, o si auspicava, la “svolta moltheniana”, lasciando in spiaggia le trame psichedeliche e il respiro progressive (segni pur vivi in Ognuno di noi è un po’ Anticristo, EP datato 2013). Moltheni c’era già prima, e serpeggia anche ora, ma Protestantesima non è un ritorno alle origini, è più che altro una presa di coscienza della propria nuova fisionomia. Dalle origini si sbocconcella (torna la chitarra acustica in due brani, il flauto, qualche lunga coda, come in Pregando gli alberi…, dove campeggiano finanche cupe distorsioni). Dalle origini non si scappa (la natura, sempre così presente nei lavori precedenti, pulsa in tutto il disco, tra frotte di animali e vegetazione imperante). Delle origini non si può fare a meno, e così l’abituale corrispondenza io-tu è quella di sempre (palese in Molteplici e riflessi, con slides di chitarra e leggera spinta elettronica, ma senza sussulti).

Giardini rimane se stesso perché è anche qui elegiaco, vaneggiante, lamentoso. Perché bada alla metrica e alle assonanze, e perché scombussola con i suoi azzardati accostamenti di vocaboli, con i suoi ossimori, le sinestesie, in un’indole visionaria che stavolta alletta solo a tratti (“malinconia di burro”, “ore anfetaminiche”, “mantelli di cenere”, “quattro cancelli in un cervello”, “lacrime gemelle generate in modo atletico”); Giardini non rimane se stesso, al contrario, quando si invischia in terreni che non sono i suoi consueti, esaminando molto la società, il mondo che lo circonda (“Povero l’uomo moderno”), e meno il suo animo, i suoi contrasti sentimentali: così, comunque a suo modo, ricorda soave il terremoto aquilano (in 6 aprile); ne Il vaso di Pandora fa riferimenti neanche troppo velati alla scena (musicale) milanese, alla cocaina che la devasta, citando la piccola iena cara ad Agnelli, e invitandola a mangiarla tutta, la polvere (della sottile linea bianca), in un brano in cui la sua voce si allarga e si eleva, sentenziosa; tra le svasature della chitarra di Maracas, rimasto suo fedele compagno, Giardini coglie poi in Seconda madre una grande verità odierna, ripetendo di continuo le tre parole allitteranti “(siamo noi) puttane in internet”.

In Sibilla, brano dal passo lento, tornano gli archi e il lato giardiniano finalmente più onirico, ma la storia narrata non seduce e la struttura del brano è troppo classica per affascinare. La perdita di efficacia, musicale e testuale, è chiara nella scialba Amare male, dalla costruzione circolare e prevedibile. Brillante, e tra i migliori passaggi, rimane invece la title-track, arrembante pezzo in 6/8, dal testo assai disilluso (“ridere non mi fa affatto bene / a chi conviene, a chi invece no”), e dalla giusta cadenza; notevolissima la militaresca Urania, con Giardini appassionato al microfono, e forse un po' battistiano (“oggi è un altro giorno vuoto / oggi è un altro giorno in cui t’invoco”). L’andamento lento di C’è chi ottiene e chi pretende ricorda una sua canzone del passato (il tango L’alba, la notte e l’inferno), accendendosi a metà con spinte rockeggianti.

È come se la maturità avesse portato in dono a Giardini una consapevolezza importante di artista, di creatore di musica e parole, smorzandone però, talvolta, naturalezza e incisività: quando vuole essere tagliente, lo è senza far male; quando vuole essere sognatore, incanta di quando in quando. La sua Telecaster, la destrezza di Maracas all’altra chitarra, il piano più pulito di Michele Zanni e i tamburi e i piatti di Giulio Martinelli plasmano un indie-rock talvolta ricco, barocco, che nella costruzione impiega mattoni anche propri di un cantautorato più “popolare”. In generale, vige sempre l'impressione di un songwriting intelligente, armonioso, espressivo. Che a volte entusiasma. E che, quando non entusiasma, comunque non sfianca e non annoia.

Umberto Maria Giardini intraprende fiero il suo pellegrinaggio, come se si convertisse a nuova religione: Protestantesima come libro sacro, come decalogo spinoso, avanguardistico. Diventare suoi seguaci e discepoli non è così immediato. Ma se si abbraccia con ardore la nuova dottrina, è questa un’esperienza che di sicuro deterge. E che edifica.

 

 

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