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R Recensione

6,5/10

Phantom Winter

Cvlt

Poteva essere l’esordio metal dell’anno, la risposta – uguale negli intenti, ma di segno opposto – alla solarizzazione, alla sempre maggiore astrazione “popolare” in cui, negli ultimi anni, è sistematicamente incorso il black (leggasi Alcest per la prima categorizzazione: Liturgy, Nachtmystium e i pessimi Deafheaven per la seconda). Non lo è diventato per pochi, ma fondamentali dettagli. Ciò nonostante “Cvlt”, atto primo dei Phantom Winter, quintetto teutonico nel quale confluiscono Andreas Schmittfull e Christof Rath, chitarrista e batterista dei recentemente disciolti Omega Massif (l’altro chitarrista, Michael Melchers, ha fondato i Cranial, mentre il bassista Boris Bilić si è unito ai Blacksmoker), rimane una testimonianza importante sotto diversi aspetti. In primo luogo, permette di valutare l’effettivo gradiente di ibridazione e, in certa misura, adattamento dell’ultimo venticinquennio di esperienze post- alle sonorità più estreme degli stessi decenni. Ancora, contribuisce a gettare una nuova luce (si fa per dire…) su un universo, quello black, difficile da cogliere nella sua interezza, al netto della crescente attenzione mediatica da esso attratta. Infine, certifica ciò che da tempo si sospettava: che tradizione ed innovazione, in questo campo, sono pressoché la stessa cosa.

Se già gli Omega Massif dimostravano una certa inventiva per etichettare la propria musica (mountain metal…), i Phantom Winter non sono da meno: “Cvlt” andrebbe ascritto ad un fantomatico “winterdoom”. Traduciamo noi, in termini potabili: un solido chitarrismo black, pesanti intelaiature ritmiche doom, arpeggi post-core ed assalti sludge. “Corpses Collide”, primo dei cinque brani in scaletta, è quello meglio sviluppato in ogni sua componente: lo potrebbero suonare, in tandem, Ulver e Isis (quelli di “Celestial”), Emperor e Neurosis, Russian Circles e Thergothon. È una lunga, gelida marcia isolazionista, straziata in lungo e in largo dagli strepiti lancinanti di Schmittfull e dalle urla gutturali di Christian Krank, scandita nel mezzo da un minaccioso pianoforte scordato: un brano scritto ed interpretato senza alcuna sbavatura. Se tutto il platter si mantenesse sui medesimi livelli, fatti intravedere anche dal sulfureo paesaggismo di “Finster Wald”, incenseremmo il capolavoro che “Cvlt”, purtroppo, non è: vuoi per il persistere di momenti interpretabili monodirezionalmente (Lesbian e Caspian in alternanza schematica su “Avalanche Cities”), vuoi per durate eccessivamente diluite (un paio di minuti in meno avrebbero reso “Wintercvlt” un’autentica bolgia a cielo aperto: così facendo, invece, la tensione si disperde).

Dispiace che l’esito finale non raggiunga l’eccellenza paventata in un primo momento ma, più che un’occasione persa, è un appuntamento rimandato: impossibile pretendere di più da un gruppo così giovane. I blacksters sorridano: a new polar star has arisen.

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