Japandroids
Post-Nothing
Per il loro album di debutto i Japandroids hanno scelto un titolo che potrebbe fare da (anti)etichetta a un genere intero, che di una sorta di teologia negativa vuole fare sfoggio programmatico: penso ai No Age, distinguibili in questo disco tra i modelli recenti, penso alla “No Future Part I” dei Titus Andronicus, e penso al manifesto degli sfasciatissimi (e sopravvalutati) Wavves, quella “No Hope Kids” che tra le righe e nei suoni dichiara tutta la rabbia nichilista di una generazione che avverte di non poter influire su nulla e che perciò fa del nulla stesso, condito di alcol e altre amenità allucinatorie, la propria dimensione.
Fil rouge musicale di questa scena appare un noise rock che, pescando a piene mani dalle scene punk ed emo-core degli anni novanta, con non pochi rimandi shoegaze e garage, trova la sua ragione nell’esibita trascuratezza qualitativa del suono (lo-fi o no-fi fa lo stesso), compensata però da una spiccata vena melodica, a tratti quasi anthemica, in una ricerca dell’inno e del jingle che faccia da valvola di sfogo positiva alla bile rappresa in corpo. Il ‘post-nothing’, allora, è in realtà un ‘post-everything’, dove però il tutto precedente viene trattato come materiale qualsiasi, perché ormai i dischi dei Nirvana e dei My Bloody Valentine vengono venduti negli ipermercati a 7 euro e li ascoltano persino in Botswana: il processo di integrazione che ha ormai fagocitato nel ‘sistema’ la rabbia contro la macchina e contro il potere della generazione precedente è vissuto come un esito inevitabile, sicché si vive in uno scazzo post-tutto che annulla ogni cosa, ivi compreso se stesso nel momento medesimo in cui si propone.
I Japandroids, che vengono da Vancouver ma schifano la scena musicale canadese (lo dicono in “Rockers East Vancouver”), entrano in questo quadro dotati di uno sguardo più disincantato e fancazzista degli altri, tanto che l’horror vacui del giovine contemporaneo («We used to dream, now we worry about dying») sfocia senza grossi traumi in voglia di fare festa («I don't want to worry about dying, I just want to worry about those sunshine girls»). Peccato che solo alcuni episodi di questo loro esordio si prestino al proposito.
Post-hardcore, post-indie-rock e post-At The Drive-In, i Japandroids – va detto – sono pur sempre in due, chitarra e batteria, in stile White Stripes, o meglio, per restare nell’ambito delle post-band, in stile Death From Above 1979 e Wavves. La rabbia post-college ha dunque bisogno di essere incanalata e amplificata da effetti e gain a mille per arrivare senza disperdersi alle post-orecchie di chi ascolta. La registrazione, in questo, fa molto, annegando la voce di Brian King sotto uno strato furioso di chitarre riverberate e sotto il primo piano costante sulla batteria di David Prowse. Ciò che la registrazione non riesce a fare, purtroppo, è rendere il disco meno monolitico di quanto non fosse prevedibile, e il minutaggio medio piuttosto alto degli otto pezzi non aiuta certo la loro digeribilità in un sol boccone. Trattasi, quindi, di un bel blocco cementizio sul groppone.
Per fortuna i pezzi migliori spiccano da soli. “Young Hearts Spark Fire”, in particolare, è l’apice indiscusso del disco: le voci di King e Prowse si sovrappongono, giocano a farsi il verso, si sostengono, in una beata furia fuzz-punk di cinque minuti piena di pause e rilanci. Divertimento assicurato. Bene anche il salmo garage-pop di “Wet Hair” e la compattezza ruvida di “Sovereignty”, nelle quali si nota benissimo come King cerchi nella ripetizione melodica un modo per far prorompere con il minor sforzo (fancazzismo, si diceva) la maggiore energia possibile. Non sempre si riesce ad evitare l’effetto-noia (“Crazy/Forever”, “I Quit Girls”), e non sempre le poche idee vengono raffazzonate a modo (“Heart Sweats”).
Dopo tutto, un disco mediano è il disco giusto per essere il rappresentante del post-nothing. Chi si stupisce? Loro no di certo. Forse chi verrà dopo di loro, però, se un dopo ci sarà, sì.
Myspace: www.myspace.com/japandroids
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