Manic Street Preachers
Send Away The Tigers
Ogni disco dei Manic Street Preachers (questo è l’ottavo, il quinto dell’era post-James) nasce sempre da un’articolata sommatoria dei precedenti, e in particolare da una combattuta dialettica con l’ultimo album pubblicato.
“Lifeblood”, tre anni fa, dopo le dispersioni più funamboliche e sporche di “Know Your Enemy”, aveva sancito l’approdo dei tre gallesi nel regno del pop più ripulito ed elegante. Con questo “Send Away The Tigers”, secondo una salomonica legge dell’alternanza, si ritorna ad un tentativo di rock più sfarzoso e incisivo, smussato però dal definitivo abbandono di qualsiasi velleità sperimentale. I Manics, in breve, non cercano più di rinnovarsi. Niente di drammatico, se non fosse che il solco della consacrazione rischia di diventare stancamente inerziale e di condurre verso una fiacca fase caricaturale dei propri stessi fasti.
Sia chiaro: “Send Away The Tigers” mette piacevolmente assieme dieci pezzi marcati in modo indelebile dalla firma dei gallesi (si noti: dieci pezzi soltanto, in controtendenza rispetto alla consueta fluvialità: un altro segnale che il tempo delle perlustrazioni è finito). I fan dei Manics, insomma, avranno di che rallegrarsi.
Lo stile di Bradfield è riconoscibilissimo, tanto nella voce quanto negli assoli; Wire mette come sempre a disposizione le proprie qualità di songwriter engagè e mai banale; Moore condisce con le tipiche rullate. 100% Manics. Alla produzione di Dave Eringa, come in “Know Your Enemy”, spetta il compito di dare un diverso tocco sonoro a ciascun brano.
Apprezzabile il singolo, “Your Love Alone Is Not Enough”, con la collaborazione di una Nina Persson sempre più rock’n’roll, coi cori di Wire e con una messe di archi a caramellare il ritornello. Proprio nella ricerca della melodia perfetta sta uno dei leitmotiv del disco, con un effetto sgradevole quando l’ispirazione langue e la melodia è surrogata da enfatici arrangiamenti che esplodono con prevedibile precisione (un esempio è “Autumnsong”, una canzone che meno urlata e pomposa sarebbe risultata molto più felice).
Altri momenti si distinguono per il recupero di fraseggi vagamente più graffianti: spicca “Rendition”, che rimanda alle movenze sfasate e spigolose di “The Holy Bible”, pur senza rinunciare a un ritornello stratruccato, ma almeno sacrificando il momento dell’assolo, troppo abusato nel resto del disco con esiti spesso riempitivi. Non è così in “Imperial Bodybags”, dove invece si inserisce bene nel vorticoso ritmo rock’n’roll, anche se infastidisce la necessità avvertita da Bradfield di strillare per forza.
Poi c’è molto pop rock: così nella liscia “Indian Summer”, nella melodicissima title-track, nella pacchiana “Winterlovers”, o in “The Second Great Depression”, interessante per la coloritura sfocata e disturbata, un po’ visionaria, che le affida il tocco di Eringa (forse il pezzo migliore).
“Send Away The Tigers” esce dopo che Bradfield e Wire si erano dedicati a progetti solisti. Il ritorno ai Manics ha evidentemente comportato la ricerca a tutti i costi del marchio di fabbrica, se non la sua moltiplicazione all’ennesima potenza, ormai stabilmente all’interno dell’ambito poppeggiante in cui i gallesi hanno deciso di veleggiare.
Non si può, solo per questo, dirne snobisticamente male: il disco è ben confezionato, ben prodotto, suonato con passione (anche civile, e questo continua a distinguere la band dalla maggior parte della truppa pop rock). Soltanto, ci si augurava un po’ più di coraggio, come quello mostrato nella nascosta e sformata “Working Class Hero”.
Il libretto è ornato da una frase di Wyndam Lewis: “When a man is young he is usually a revolutionary of some kind. So here I am speaking of my revolution”. Ma la rivoluzione non ha tutti i gingilli di questo disco. Come canta Bradfield in “Rendition”: “Oh Good God, I sound like a liberal”. Bravi Manics. Ma l’autoaccusa, ahimè (e ahiloro), ha un fondo di verità.
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