Katie Gately
Color
Per quanto laggettivo sperimentale sia affibbiato un po a chiunque, con Katie Gately siamo senza dubbio di fronte a unartista che lo può portare su di sé a pieno titolo: a due anni da Pivot, pezzo di 14 minuti e mezzo con cui si riaffacciava dopo i lavori del 2013 (leponimo e Pipes), oggi la sound designer di base a Los Angeles debutta su disco per la Tri Angle, ed è un buon disco.
Ciò che conferma è unattitudine a un suono massimalista, invasivo, continuamente condotto alla miccia che lo fa esplodere, con un collage che appiccica sopra allart pop più destrutturato le più impensabili pezze sonore, su uno sfondo di un nero ferroso quasi stregonesco (letichetta è la stessa di Forest Swords, Holy Other, Balam Acab e altri). Lesercizio di assommare più cose possibili è rischioso, ma Color riesce a non urtare, lasciando per strada anche qualche gioiello, a partire da Tuck tra i pezzi dellanno. È lapice melodico di un disco, per il resto, più concentrato sui tessuti sonori, ma che mantiene, rispetto a questo pezzone, la stessa tendenza a sovrapporre e intricare strati, samples, richiami tradizionali (qui la tromba), tutti poi incrostati e impeciati da unelettronica crostosa, in una resa di esaltata ebbrezza.
Vengono in mente, altrove, Glasser (Frisk) o la prima Bat For Lashes (nel paganesimo notturno di Color, dove convivono accenni di ninnananna a modulazioni vocali storpiatissime), sullo sfondo di Bjork. Le basi sono quasi sempre furiose (Sift), sicché dove abdicano lasciano lascoltatore in una terra desolata straniante, quasi ai confini con i paesi tzigani (vd. i Balcani stravolti di Rive: qualcosa come il Matt Elliott più zingaresco rifatto da Julia Holter).
Il complesso è arduo da incasellare sperimentalismo, appunto. E funziona.
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