Klaxons
Surfing The Void
Tra “Myths Of The Near Future” e il secondo album ci sono stati di mezzo, per i Klaxons: l’intruppamento nel genere nu-rave, il Mercury Prize, un disco bocciato dall’etichetta perché giudicato troppo sperimentale («ricordatevi che siete una pop band»), un entusiasmo in patria soprattutto adolescenziale, grazie in particolare alle spade fosforescenti del video di “Golden Skans”, che hanno cominciato a colorare i loro concerti come un party delle medie (che è dove sembra di capitare ai loro live britannici). E ancora: il definitivo ingresso nella band di Steffan Halperin (batteria). E molto tempo: tre anni e mezzo.
Cestinare un lavoro intero perché non gradito ai boss e rifare tutto da capo con l’idea di dover piacere deve mettere una pressione notevole. E i Klaxons – bisogna dargliene merito – ne escono a testa alta. “Surfing The Void”, pur essendo stato prodotto da Ross Robinson (Korn, Slipknot e altra terribile roba nu-metal), non è un disco piacione. Anzi. Rispetto al debutto, suona più rumoroso, denso e complesso, slegato ormai dai presunti flirt con i ’90. Si rimane nelle maglie di un cyber-psych-pop immerso in un esoterico immaginario sci-fi, arricchito da intrecci vocali sempre più raffinati e ritmi contorti, in una dimensione sonora gremita in ogni suo anfratto, tra scoppi, distorsioni, echi, ruvidezze, isterie, in un’esaltazione ambiziosa e scompigliata dell’idea di ‘pop’. Un universo-caos di cui ci si dichiara creatori.
Passaggi melodici angolosi tra scartavetrate di chitarra sono il leit-motiv di un disco assieme freak ed epico. Notevoli il tiro di “Echoes” e il passo sciancato space-goth di “The Same Space”, mentre fanno capolino i primi Horrors, psicotici e chiassosi, nelle spire visionarie di “Surfing The Void” e di “Flashover”, putiferio a tratti fracassone che mostra anche il lato debole dei nuovi Klaxons. L’iper-produzione e il suo effetto di calca, creati come sono soprattutto dal basso (sempre ultra-distorto) e da chitarre bombastiche, rischiano di stroppiare. Forse un uso più incisivo dell’elettronica (presenti i Late Of The Pier?) avrebbe aiutato, evitando qualche eccesso di rumore gratuito e dando più credibilità a quell’aura cosmica e cabalistica che i quattro continuano a darsi (con ironia? la copertina, fantastica, sembra suggerirlo).
Si giovano di tastiere più aeree, ad esempio, “Venusia” e “Twin Flames”, tra le cose migliori del disco, con “Valley Of The Calm Trees”, unico pezzo rimasto dall’album abortito. Meno ispirati, invece, altri episodi più caciaroni e un po’ auto-caricaturali (“Extra Astronomical”), dove però si può notare la spinta propulsiva e assieme tarantolata della batteria.
Tanto che se ne esce con buone impressioni: oltre a un passato da rivalutare e a un presente tutt’altro che trascurabile, i Klaxons sembrano avere anche un futuro promettente, e magari, dopo questo probabile flop nei mercati britannici, sciolto dai diktat delle major.
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