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R Recensione

7/10

Sand Circles

Motor City

Analizzando il fenomeno hypnagogic pop e gli scarti di retromania eighties in bassa fedeltà recentemente usciti dalle scene underground, ci si è molto focalizzati sulle implicazioni temporali (la nostalgia, il recupero del passato attraverso i feticci più kitsch, ecc) e poco, quasi nulla, su quelle spaziali. Il secondo album dello svedese Martin Herterich, alias Sand Circles, sempre per Not Not Fun, è un buon pretesto per spostare su queste coordinate il discorso e per verificare se davvero la poetica hypna implichi solo un viaggio nel tempo e non anche un tentativo di raccontare una geografia.

Come già si era scritto, un concept topografico era “Suburban Tours” di Rangers, dato alle stampe proprio mentre gli Arcade Fire lanciavano la loro esplorazione delle periferie. L’America cercava di capirsi attraverso un viaggio nei suburbi, come se si trattasse di recuperare le proprie radici rivisitandone gli sfondi, in particolare quelli più marginali e laterali, da cui è più facile vedere i cambiamenti. Mentre la band canadese lanciava il progetto The Wilderness Downtown, invitando a percorrere con l’aiuto di Google le strade della propria infanzia, Rangers ricreava in musica la sua (abbandonata) San Francisco, offrendo video ben attenti a mettere in relazione suoni e architettura, seguito da altri hypna-adepti attratti dalle traversate urbane (Kool Music in "Running back to Everyone", l’Outer Limits Recordings berlinese di “Foxy Baby”, il Dylan Ettinger di “New Age Outlaws”).

Con i dodici pezzi di “Motor CitySand Circles si pone in questa scia ‘psicogeografica’, e lo fa, non a caso, solo su cassetta, ossia il supporto per eccellenza legato – oltre che all’infanzia – al viaggio (il mangianastri delle auto, i walkmen). Uscito un po’ in ritardo rispetto all’ondata hypna 2009-2011, il lavoro di Herterich ne è però uno dei risultati più paradigmatici e riusciti. Panorami ondulati di synth à la Com Truise introducono a un paesaggio cittadino sgranato (“White Sand”) e detritico (il chillwave di “Downtown Holdup” e “Innercity Haze”), incrocio di ricostruzioni retrofuturistiche ed elegie a furia di slogate drum machine e di suoni analogici in marcescenza.

Se la città era il mito dei futuristi, gli ipnagogici ne cantano il requiem, intenti a costruire una colonna sonora per solitari automobilisti incantati dai riverberi (l’ambient stupefatto di “Distant Lights”) e dai vuoti notturni (“Endless Nights”). Ne esce un paesaggio abbandonato, wasteland di cementro e vetro, spreco di neon e rumori a perdere. Herterich pigia sul pedale del lo-fi, facendo stridere di fruscii le strade desolate e moltiplicando l’eco di loop luminescenti come scie di macchine in corsa: spettacolo la title-track, che è pura veduta sci-fi su una metropoli fantastica, sprofondata dai beat ’80 in ricordi ricostruiti dall'immaginazione e ritoccati dai videogiochi. Apocalisse urbana.

E così spazio e tempo si ricongiungono in una dimensione comunque irrecuperabile. Perdute non sono soltanto parti di noi, ma anche parti del mondo che le hanno cresciute. Per inabissarsi nelle nostre città invisibili, “Motor City” è l’ideale. Piccola perla inattesa.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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casadivetro alle 11:28 del 24 aprile 2012 ha scritto:

Dalle tracce ascoltate mi ricorda molto Severant di Kuedo: Blade Runner e futuristiche città piovose.

target, autore, alle 12:20 del 24 aprile 2012 ha scritto:

Giusto accostamento, hai ragione! Ci sento molto meno, invece, il richiamo a Andy Stott che leggo un po' ovunque in giro.