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R Recensione

6,5/10

Russian Circles

Blood Year

In attesa del ritorno dei pesi massimi Cult Of Luna, annunciato per il prossimo 20 settembre con il mastodontico “A Dawn To Fear”, un altro nome di punta della scena post metal (o di ciò che ne rimane) interrompe il proprio pluriennale silenzio discografico. Così come per i Pelican di “Nighttime Stories”, anche i Russian Circles di “Blood Year” avanzano verso una sistematica revisione del proprio recente curriculum. La differenza sostanziale sta nel moto e nell’intensità del movimento intrapreso dalle due formazioni chicagoane: centrifugo e vigoroso quello dei Pelican, chiamati a risollevarsi da una china discendente solo appena mitigata nel passato prossimo; denso e centripeto quello dei Russian Circles, il cui suono torna a farsi massiccio ed evocativo dopo le spigolose triangolazioni che avevano preso il sopravvento nel precedente, buon “Guidance” (2016).

Il ritorno del bassista Brian Cook all’heavyritmetica degli esordi targati Botch – grazie alla militanza nei Sumac di Aaron Turner, per la cui firma sono usciti, solo nell’ultimo biennio, il complesso full lengthLove In Shadow” e una duplice collaborazione con Keiji Haino – non sembra aver lasciato un segno permanente sulla scrittura dei Russian Circles, il cui settimo disco studio è, piuttosto, un monumento alle sempre notevoli – quandanche un filo autoreferenziali – capacità strumentali del trio. La consueta predilezione per la concinnitas (si torna sotto i quaranta minuti) e la rinnovata collaborazione con Kurt Ballou dei Converge a registrazione e mix esaltano il risultato complessivo, che guadagna in coesione ciò che perde in originalità. Preziosa, in particolare, torna l’esperienza accumulata dal chitarrista Mike Sullivan al fianco di Chelsea Wolfe per l’allora spartiacque “Abyss” (2015). Il secondo troncone della possente “Arluck” (introdotta dalle contemplazioni per steel guitar, à la Red Sparowes, di “Hunter Moon”) viene perforato e contrappuntato da fraseggi e trilli fra post-core e black metal. Di un melodismo tenebroso e abbacinante al contempo rifulge “Milano”, mentre più tradizionale è la litania in crescendo di “Kohokia” (i tamburi di Dave Turncrantz sono letteralmente assordanti) e “Sinaia”, che scivola con perfetta continuità dopo la breve lamentazione funebre di “Ghost On High”, insiste nell’accumulo – non sempre appropriato – di asperità metalliche.

Disco comunque di livello, che alla metamorfosi preferisce la riconferma.

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