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R Recensione

6/10

Rangers

Pan Am Stories

Dopo i “Suburban Tours” attorno alla sua San Francisco, Joe Knight torna con un disco più ambizioso: dai bozzetti cittadini si passa a tredici storie panamericane, contenute in un doppio vinile la cui copertina a collage mostra bene il desiderio di coprire più spazio e maniere possibili. Iper-Rangers. La durata delle sue jam ipnagogiche, allora, si dilata, arrivando a formare vere e proprie suite, composite e stratificate: “Zeke’s Dream” (oltre 13 minuti) esemplifica alla perfezione quanto Knight abbia voluto puntare in alto, approfondendo l’aspetto psichedelico dei suoni e lasciandoli scorrazzare in libertà per far meglio funzionare l’ormai noto meccanismo memoriale.

Sull’onda di una vecchia radio FM, si ripercorre in bassa fedeltà l’intero percorso della musica per le masse tra ’70 e ‘80, tra cazzeggi funkie, sketch per Magnum P.I., deviazioni drogate stile Ariel Pink in acido, svilimenti di americana per réclame à la James Ferraro e ammicchi melodici glo-fi, sotto una patina di synth in riverbero colati ovunque e chitarre effettate in costante sbrodolamento. Knight suona tutto, e qualche volta canta, per pezzi che però non superano mai la soglia del pop, affacciandosi soltanto per qualche capatina da Neon Indian andato a male (“Sacred Cows”, “Zombies (Days)”, “Zombies (Night)”, “Khyber Pass”: le cose migliori).

Le soluzioni sonore, insomma, non sono diverse rispetto a quelle di “Suburban Tours”, ma producono un effetto più intontito, da Sun Araw urbano (“John Is the Last of a Dying Breed”), con conseguenti abbiocchi che toccano l’apice attorno a qualche divagazione sixties post-Ducktails (“Jane’s Well”) in cui il livello di pippeggiamento visionario sbrocca un po'. Azzeccata, invece, la prova su registri post-punk narcotici di “The Mule” (la seconda parte è da New Order era-“Movement” come poche altre cose che ho ascoltato; manco certo Blank Dogs, per dire).

La verità è che, come in tutti i dischi che vorrebbero racchiudere tutto e diventare - magari - la bibbia di un genere, finisce per esserci troppo. Nulla di brutto, ma troppo poco che impedisca all’amarcord ipnagogico di diventare semplice distrazione.

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