Forest Swords
Dagger Paths
Unico inglese nell’americanissima etichetta Olde English Spelling Bee, Matthew Barnes (= Forest Swords) è uno di quei personaggi misteriosi e sfuggenti che vanno ultimamente per la maggiore tra blog e riviste specializzate: uno di cui non si sa nulla, ma la cui musica incanta. Questo suo disco di debutto segna una leggera virata all’interno della linea ‘ipnagogica’ dell’etichetta (James Ferraro, Ducktails, Rangers, Matrix Metals ecc.), andando piuttosto a incontrarsi con gli esperimenti neo-psichedelici intrippati di una NotNotFun o con le esplorazioni elettroniche squassate di una No Pain In Pop (per cui è appena uscito il nuovo singolo “Rattling Cage” e dove è accasato colui che forse a Barnes è più accostabile, ossia A Grave With No Name).
Che vuol dire, in parole povere: questo tizio ha fatto un gran disco, capace di mescidare le tendenze nuove più interessanti provenienti dalle etichette underground migliori, ma senza impiastricciamenti, hypna-stratificazioni, flirt con gli anni ottanta più derelitti, burdelli variamente shittosi. L’esito è indecifrabile, e pure inetichettabile (drone-step, dice Pitchfork), e forse perciò così evocativo: guida, di solito, un giro di chitarra twang, molto riverberata ma non sfatta, e sotto si insinuano suggestioni kraute, bassi e 'spazi' dub, squarci trip-hop, percussioni tribali, inserti dronici sottopelle, assurdi cenni r’n’b, però denudati. Per dire: “If Your Girl” è la cover (ehm) di “If Your Girl Only Knew” di Aaliyah. Ma la resa ambient/psych-folk, con le percussioni che entrano solo ai 4’40’’ per inaugurare un breve baccanale primitivo, sembra atterrire la fisicità della versione originale, mantenendone intatta la bellezza. Dal dancefloor a sentieri desolati in mezzo alla campagna: una polverizzazione impensabile, e riuscitissima.
Sopra ho detto trip-hop, ma penso soprattutto alla versione ‘evoluta’ del terzo Portishead, che sembra dare qualcosa a Forest Swords sia nei riferimenti krauti della sezione ritmica (qui però più emaciata ed essenziale) sia in certe interpolazioni horror: lacerazioni di elettrica, rumorismi inquietanti, sample da rabbrividirci. Serpeggia lungo tutto “Dagger Paths” un’aria di tremore e angoscia, come se si attraversasse un bosco o una brughiera nel pieno della notte: è un disco rurale, quello di Barnes, da Olde England davvero, isolata e tenebrosa, pagana e spaventevole. “Visits”, ad esempio, fa tremare nelle allucinazioni ruvide delle chitarre e nel vocal atterrito. L’attacco di “Glory Gongs” potrebbe essere quello di una qualsiasi canzone di “Third”, o tutt’al più dei pezzi più ambient di Orbital o Future Sound of London. Se c’è dello psichedelico, insomma, è di quello nuovo: svenato.
Gli apici sono i tre brani più lunghi: “Glory Gongs”, che vaga scheletrica, in un ritmo black stuprato e spogliato del beat, tutta raccolta negli stracci lancinanti di chitarre ora austere (il leitmotiv, quasi twinpeaksiano) ora ipnotiche (2’32’’): l’intreccio dei diversi temi, alla fine del pezzo, esalta. In “Hoylake Mist”, addirittura, sembra di scendere nella cantina di Jandek, su quelle note ossute pestate dalle percussioni marziali (haunting experimental folk?), mentre nelle sperimentazioni che sanno di legno e acqua marcia di “The Light” si sente netta la lezione dell’Inghilterra DIY più sotterranea, dai The Shadow Ring ai brightoniani della Woodland (Clara Kindle, Mortis Tobias). “Miarches”, infine, a colpi mortuari e lavorii ferrigni, distilla l'ipnotismo di certi pomeriggi plumbei pronti a sfociare in ansia.
Aria nuova, e mefitica. Da questo ragazzo, già eccellente ora, possiamo aspettarci grandi cose.
Edit: il disco è stato ripubblicato su cd dalla No Pain In Pop nel novembre 2010, con l'aggiunta, alle sei tracce dell'lp, dei due pezzi contenuti nel 7' uscito a luglio ("Rattling Cage" e "Hjurt").
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