Sun Araw
On Patrol
Un discorso sulla neo-psichedelia ipnagogica non può prescindere da Cameron Stallones, aka Sun Araw, anzi, deve necessariamente partire da lui, sebbene i suoi inizi (“Beach Head”, 2008) di ipnagogico avessero ben poco. “On Patrol”, però, prosegue il percorso aperto con “Heavy Deeds” (2009), che è hypna-centratissimo, per la sua tendenza visionaria via recupero memoriale di eighties mai vissuti e feticci vetero-tecnologici o vetero-televisivi (cover art e immagini interne di "On Patrol" sembrano prese da un Super Car ambientato nel 2500: passato e futuro assieme, very hypna).
Ecco, diciamo che qui Stallones si eleva all’ennesima potenza, in quasi 75 minuti idealmente divisi in quattro lati (ma il disco esce anche su cd, stavolta) e nove pezzi dalla lunghezza sempre piuttosto mostruosa, vd. i 16 minuti della finale “Holodeck Blues”. Inevitabile che in un lavoro così imponente ci sia qualche segnale di infiacchimento, ma la sostanza regge.
Si respira sempre torrido, lungo le spire ipnotiche dei pezzi, secondo l’ambientazione marina tipicamente ipnagogica, ma quella di Sun Araw è una spiaggia notturna e inquietante, minacciata da vulcani in esplosione (le eruzioni di synth nell’eccellente “Beat Cop”) e da tribù cannibali, è uno sfondo californiano che si scioglie come plastica che brucia: le conga, i bonghi, gli interventi vocali sciamanici, le chitarre inacidite, gli organi tropicali ricreano una canicola infuocata e apocalittica, che è disturbante nel momento stesso in cui sembra intontire di fanghi strafatti. I rigurgiti memoriali di Stallones non sono affatto pacificati: diversamente dal versante glo-fi, qua c’è puzza di rimosso, e di quello cattivo, capace di insinuarsi proprio grazie ai ritmi au ralenti e alle etno-fascinazioni (“The Stakeout”) da afro-beat esterrefatto calato in città del futuro esplose.
È proprio questa commistione di melmosa trance tribale e proiezione tech-avveniristica a fare di un disco di Sun Araw un’esperienza meritevole, al di là di certe lungaggini senza grandi colpi (gli ultimi due pezzi): una roba come “Conga Mind”, psichedelica più classica di bassi ondosi, echi di chitarra e organo drogato, incanta, così come la vaporosità sabbiosa più rilassata di “Deep Cover” (con l’assolo di organo negli ultimi tre minuti che scompagina).
Tanto che lo Stallones è già piccolo maestro psych-hypna. Alla Not Not Fun, in particolare, gli eredi abbondano (vd. le visioni cyber-metropolitane futuribili di Dylan Ettinger, litanie aliene da incubi elettronici anni ’80 – “New Age Outlaws”, solo in cassetta, è il must –, o il francese High Wolf): la mucca, ora, non va munta troppo, ma la sensazione è che potremo ancora sentirne delle belle.
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