Sambassadeur
European
Vengono dalla Svezia, cantano in inglese, prendono il nome da un pezzo di Serge Gainsbourg e si dichiarano fin dal primo disco (omonimo, 2005) appassionati di french touch: c’è da stupirsi se titolano il loro terzo lavoro “European”? Giammai. Come non c’è da stupirsi se la Scandinavia (Göteborg, nella fattispecie) è per l’ennesima volta culla di una band indie pop. Tutto secondo stereotipi, già, ma di quelli che confortano, non di quelli che snervano.
Se nel secondo disco dei Sambassadeur (“Migration”, 2007) si infiltrava, tra le maglie del twee pop chitarristico e color pastello più vulgato, qualche incursione elettronica à la The Radio Dept. (per restare all’interno dell’etichetta Labrador per la quale pubblicano; diremmo à la Pet Shop Boys, per scomodare la generazione dei padri), in questo album si torna a un pop pressoché privo di ritocchi via synth, enfatizzato semmai da un costante ricorso ad arrangiamenti orchestrali. Il tutto sfacciatamente facile-da-ascoltare se non addirittura già-ascoltato. Ecco allora che alcuni pezzi di “European” suonano come veri e propri out-takes da “My Maudlin Career” dei Camera Obscura, anche perché la voce di Anna Persson, posata e vagamente blasé, sembra qua e là voler condividere con quella di Tracyanne Campbell non solo il tono, ma pure l’attitudine.
Sta di fatto che “European”, lontano dall’originalità, convince comunque, perché la ricerca della melodia perfetta alla quale i quattro svedesi si sono votati porta risultati evidenti già a un primo ascolto, con la pienezza sinfonica della strumentazione che asseconda e colora. “Stranded”, in apertura, è un bijoux pop raffinatissimo, incorniciato da speculari intro e outro di piano (i Saint Etienne di "Sylvie" aleggiano) e zeppo di una malinconia stranamente febbrile (quante rullate!) e vitalistica, da vento sulla faccia. Roba dolcemente sentimentale, ma senz’altro antidepressiva.
È il preludio a un trionfo di pop ’60, di primi Cardigans e Concretes, di Scandinavia primaverile, tamburelli scalpitanti (“Days”), archi gloriosi (“Sandy Dunes”), melodie retrò e stacchi da showtunes che fanno, grazie anche a leggeri overdubbing vocali qua e là, molto Abba (“Forward Is All”, “I Can Try”, con sax: canzoni che vi ricorderanno le pettinature delle vostre madri negli anni ’70 mentre leggevano i cataloghi Postalmarket), agrodolci intarsi di chitarre puntellati dal piano (“High And Low”), ed il vero peccato è che tanta apoteosi rinfrescante duri soltanto lo spazio di nove pezzi (tra cui un episodio strumentale da new acoustic movement come “A Remote View”). Pochino, anche per una musica che sulla fuggevolezza costruisce la sua poetica.
Da ascoltare, comunque, per chi ama il genere. E, perché no, per chi aspetta la bella stagione come scrutandola dalla prua di una nave.
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