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R Recensione

7,5/10

The Radio Dept.

Running Out of Love

Nei sei anni intercorsi tra “Clinging to a Scheme” e il nuovo “Running Out of Love” i The Radio Dept. hanno pubblicato due singoli. Il titolo del primo, “Death To Fascism”, voleva forse essere un manifesto più che un auspicio (quello svedese non mi sembra un popolo facile alle illusioni), ma era evidentemente anche l’espressione di una paura di cui in questi giorni sentiamo crescere l’inquietante urgenza.

Di certo, quel singolo era l’anticipazione di un nuovo corso per la band di Johan Duncanson e Martin Carlberg: politico, engagé, elettronico. Chi se lo aspettava, dal gruppo di “Lesser Matters”? Eppure ciò che ne esce è un gran bel disco, che conferma gli svedesi come i migliori (o quasi) in circolazione a proporre quello che New Order e Pet Shop Boys hanno fatto per anni a livelli altissimi. In “Running Out of Love” c’è poco spazio per le chitarre, mentre  prendono il sopravvento beat da disco, synth sovresposti e bassi corposi, in mezzo a testi che dibattono quasi monotematicamente del fallimento delle politiche occidentali e del ruolo supino e perciò complice di ognuno di noi.

Potrebbe sembrare, questo, un registro incongruo per chi prima aveva dichiarato per lo più le proprie fragilità sentimentali, con quel tono di timida intensità che ha fatto di “Lesser Matters” un disco cult per i pure at heart più ritrosi, e invece proprio la costante della discrezione, declinata qua in una chiave di salda fermezza, fa di questi dieci pezzi un piccolo manifesto per indie poppers cresciuti: è il tempo di prendere una posizione, e la posizione è la denuncia di ogni fascismo. Come l'infermiera nel quadro di copertina che decide di farsi soldato (il quadro è del russo Geli Khorzev, 1976).

Duncanson è ironico verso il menefreghismo mascherato da engagement di molti occidentali («I drink Cuba Cola / It’s my contribution to the political debate / my silent cheer for a change»; ancora: «I’m fast asleep and can’t be guilty»), e le melodie sempre perfette che ricama sopra i fraseggi elettronici possono ben mimare questa copertura in chiave pop della protesta e dell’indignazione: si pubblica la gif, si colora l’avatar, si condivide il meme, ma intanto non si fa nulla di concreto, mentre lo stato svedese rimane uno dei maggiori produttori di armi al mondo («a diabolic shame», dice Duncanson in “Swedish Guns”, una delle chicche del disco, con il suo passo pesante da stanca stomping song della disillusione).

Mentre solo un paio di pezzi sono musicalmente in continuità con i dischi precedenti (l’indie pop appiccicoso di “This Thing Was Bound to Happen” e la ballata dell’autoassoluzione “Can’t Be Guilty”), l’album prende quota soprattutto dove si stacca di più dal passato, per abbracciare in toto la chiave synth pop: eccellenti “Occupied” (quella melodia di tastiere…), “Committed to the Cause” (con piano bouncing “so ‘90s”), “We Got Game” (Pet Shop Boys anni Novanta tutta la vita) e “Teach Me To Forget”, che chiude in bellezza con un beat e rifiniture quasi house + melodia killer.

Non c’è luce in fondo al disco («When our pain is over / it’s someone else’s turn»), e però regna una certezza: «Better a failed poet / than a legalized thief». “Che Guevara and Debussy to a disco beat”, avrebbe chiosato Neil Tennant.

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