Saint Etienne
Words and Music By Saint Etienne
Sembrava che avessero finito le cose da dire i Saint Etienne, principi per quasi un quindicennio del pop elettronico inglese, ma silenziosi da ormai 7 anni (“Tales from Turnpike House”, 2005). E invece. Non solo sono tornati, ma hanno deciso di farlo in grande spolvero, con quello che è, tra i loro otto studio-album, il lavoro più ballabile e uptempo. Celebrazione della musica e del suo ruolo nella vita delle persone, “Words and Music by Saint Etienne” è in realtà, e il titolo ben lo mostra, una celebrazione di se stessi. Riuscita benissimo.
Wiggs e Stanley, d’altronde, hanno bussato alle porte di un’équipe di produttori di tutto rispetto, per lo più orbitanti attorno al collettivo Xenomania (gente che ha già lavorato, tra gli altri, con Pet Shop Boys e Kylie Minogue, e si sente). Ne esce un sound glorioso, puro dance-pop anni ’90, come se i Saint Etienne fossero tornati di colpo ai tempi di “He’s On The Phone” o “Pale Movie”, con un ulteriore rigoglio della palette strumentale e con un surplus di vivacità cromatica. Tutto sbrilluccica, in questo disco, in una Londra battuta dal sole che in realtà diventa, come da copertina, città ideale della musica, utopia sonora, isola-che-non-c’è per synthpoppari euforici. Roba come “I’ve Got Your Music”, “DJ” o “Tonight” (singolo non azzeccatissimo) è puro entusiasmo dance, Pet Shop Boys era-“Very” fino al midollo, synth in esplosione, chitarre sverniciate di colori e una Sarah Cracknell sempreverde, che però non gioca alla ragazzina. Anzi, la ricostruzione della propria infatuazione per la musica nella ‘finisterriana’ “Over the Border” gioca a carte scoperte partendo da Peter Gabriel, Top of the Pops e New Order: maturità mica vuol dire non gioire più come bimbi.
Come nei loro dischi migliori dei nineties, i Saint Etienne eccellono nei crossover stilistici, e riescono sempre a infilare momenti extravaganti che spezzano i ritmi, dalla disco sottilmente lounge di “Last Days of Disco” al classicismo bacharachiano di “Answer Song”, dall’electro-pop macchiato di nero dal moog di “Twenty-Five” alla splendida “I Threw It All Away”, che ancheggia tra flauti, chitarre acustiche, archi e glockenspiel, come una ballerina malinconica. Se poi a destra e a sinistra ci sono pezzi da dancefloor ora e sempre (“Popular” e “Heading for the Fair”) si ottiene con facilità uno dei dischi dell’anno nel genere. E uno dei 3-4 dischi più belli di una band che aveva già detto cose spettacolari, ma che è pura gioia sentire ancora così in forma.
Anche commercialmente. In un revival nineties che, soprattutto via balearismi vari, aveva già riaperto alla grande a questi suoni (prendendo a piene mani dai Saint Etienne, peraltro: vedi Keep Shelly in Athens, The Embassy, Shine 2009, Korallreven e molto altro), il trio londinese rifà capolino al momento giusto, sfoggiando come mai prima il proprio marchio di fabbrica. Goduria.
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