The Radio Dept.
Clinging to a Scheme
Prima di qualsiasi presentazione dei Radio Dept. (se dopo quel capolavoro che era “Lesser Matters” ne serve ancora una), un consiglio: fate partire, qua sopra, il non-video di “Never Follow Suit”. Foste voi a casa, in biblioteca, in ufficio, in un bar, in Giappone, dai nonni, in convalescenza, innamorati, in attesa dell’estate, vi si spiegherebbe comunque davanti agli occhi e dentro le orecchie una canzone pop semplicemente perfetta, che è quanto i due svedesi Johan Duncanson e Martin Larsson sanno fare, quando sono in forma, da ormai 10 anni. Vi accoglie un’intro tutta drums, poi un basso sinuoso in sincro con una tastiera dreamy sottopelle, e finalmente un piano balearico che ricrea un crepuscolo estivo ovunque voi siate. Il synth che riproduce gli ’80 sopra i primi colorati ’90, una linea vocale deliziosa, un sample black che cala la cultura urbana dei graffiti nell’odore di sabbia: tutto porta verso una piccola summa pop da archiviare negli annali. E da ascoltarsi in loop.
L’indie-pop sporcato e sfocato dei Radio Dept. ha sempre avuto un altissimo grado di evocatività, anche in quel disco meno ispirato che fu “Pet Grief”. Nel concetto, è quanto il recente movimento glo-fi ha portato agli estremi: si velano di leggere annebbiature suoni e melodie cristallini (come quando si sporca, su un foglio, il segno di una matita), dando loro una nuova consistenza, sognante, profonda, quasi sempre nostalgica, anche dove le basi elettroniche spingono più verso il dancefloor. Eredi di una certa tradizione electro-pop inglese volutamente introversa (non a caso da qualche mese nel myspace della band campeggia una foto d’annata di Chris Lowe, Pet Shop Boys), i Radio Dept. splendono nel regno delle anime candide, mescolando la naïveté scandinava più radiosa a una certa autistica timidezza («you want, you wanted to, but never dared to», dicono in “Never Follow Suit”: roba così, etica della rinuncia morrisseyana come se piovesse).
In questo “Clinging To A Scheme” le due attitudini coesistono, tra puntatine danceable più aperte rispetto agli esordi, vera novità del disco (“David”, “Heaven’s On Fire”, la “Never Follow Suit” di cui sopra), e momenti introflessi al limite dell’ipnotico (“A Token Of Gratitude”, il dolce finale di “You Stopped Making Sense”), del krauto (“Four Months In The Shade”, quasi certi Lali Puna strumentali) o dell’acustico à la Kings Of Convenience (“Domestic Scene”). A livello complessivo siamo, direi, a metà tra i due dischi precedenti, anche se qualche picco esige amore immediato: “Heaven’s On Fire”, ad esempio, sfoggia una solarità pop irresistibile, con intarsi marinareschi chitarra/piano e un finale in cui gli strati di strumenti diventano labirintici. Meno killer “This Time Around” e “The Video Dept.” (la più fedele al verbo shoegaze-pop), mentre piacciono i lievi disturbi distonici che accompagnano sullo sfondo la delicata “Memory Loss”, con una chiusa ‘so New Order’ e una scrittura pop da leccarsi i baffi.
Ora, il consiglio è di ascoltarsi tutto il resto del disco, a partire magari da quella “David” (già in un Ep del 2009) che trovate sempre qui sopra, e in particolare dalla sua strofa su due accordi che fa già capire da sola quanto dinamismo in più abbiano aggiunto gli svedesi rispetto al passato. E quanto poco altro pop di questo livello si senta in giro. Non goderne è peccato.
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