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R Recensione

9/10

O. Children

Apnea

Dell'esordio omonimo di due anni fa si erano accorti in pochi, almeno in Italia. Eppure su "O. Children" (Deadly People, 2010) il quartetto londinese, visualmente prodigo di allegorie dark-camp e musicalmente dedito a una sintesi (?) - umbratile, fantasiosa, ma sempre elegante - di Sisters Of Mercy, Cramps e Bad Seeds, imponeva uno sguardo a dir poco peculiare nel filone del nuovo post-punk albionico.

Dopo quel primo vagito, le cose hanno preso una piega inaspettata. Inaspettatamente brutta, per meglio dire. La band ha affrontato ogni genere di problema e tragedia personale, non ultima la quasi-deportazione del cantante Tobi O'Kandi (lo stangone nero dal look emo) il quale, per lo stress causato dalla situazione kafkiana in cui si è trovato suo malgrado coinvolto, ha sviluppato problemi di dispnea notturna. E' ancora uno dei magici paradossi del pop che, dopo siffatte tribolazioni, la "London's gloomiest band" - così certifica la webzine DIY, non dimenticandosi però di cogliere gli aspetti più squisitamente kitsch della proposta - sia riuscita ad approdare a un sophomore album a dir poco stupefacente, opera seconda nella quale si espande il raggio d'azione e si rifiniscono le coordinate di un suono mai così frastagliato, curato al millimetro, totalizzante. Tante le novità in campo, a cominciare proprio dal nuovo "calore" che promana dal baritono di O'Kandi. Pur non arretrando di un centimetro in quanto a potenza e appeal fatalistico, ora il cantante sembra più sciolto, moderatamente soulful (lo si ascolti in quella Oceanside sulla quale ci si dilungherà più avanti), meno legato agli archetipi gestuali di Ian Curtis (uno per tutti: la repentina discesa dalla dominante alla tonica per concludere il verso, che era un suo marchio di fabbrica) e Nick Cave.

Sotto la sua egidia, "Apnea" risplende come l'arcano iride in technicolor della cover: allucinazione annegata di epica sulfurea, viaggio kubrickiano di scivolosità placentale verso l'origine del dolore e la sua sublimazione. La classica luce alla fine del tunnel (la pupilla), ma stavolta è il tunnel a dare conforto e la luce ad apparire sinistra. A inaugurare e chiudere il trip due momenti chiave come Holy Wood  e Chimera, capaci di innalzare il nu-gothic del gruppo a vette finora inedite di emotività e ricercatezza formale. La prima è ballata intoccabile: gocciola come sangue nerognolo da una ferita infetta, si snoda come serpe fra ritualismo percussivo e arpeggiati a mò di sudiario. La seconda, scelta come singolo, declina quella semantica in un contesto più dinamico, con tastiere imperiose e una bella vena melodica "pumkiniana" (e ci si accorge finalmente di quanto "Ava Adore" sia da considerare, se non alla pari dei suoi due predecessori, almeno degno della medaglia di bronzo sul podio dei capolavori dello "zuccone" Corgan). Esattamente a metà strada, fra primo e secondo tempo, una gemma senza tempo come I Know You Love Me, tutta giocata sull'interplay gospel fra coro e voce solista, per certi versi sorellastra di Ezekiel's Son (presente sul disco d'esordio) e come quella standard definitivo di pop gotico per il nuovo decennio.

Ma "Apnea" è anche e soprattutto il luminoso pulsare dei nervi, l'accartocciarsi dei polmoni in condizione di allarme, la sensazione liquida di pericolo incombente. Perciò largo a composizioni audaci nelle strutture, a tratti spigolose o comunque prodighe di una linearità fluttuante. Swim e Solid Eyes sono, in questo senso, fiere dell'eccesso, costruzioni a incastro che inglobano twang in odore di psychobilly e suggestioni romantico-vampiresche, micro-sezioni a catinelle, onnipresente catchiness, giochi d'astuzia su tempi e anticipi. Red Like Fire va persino oltre, aprendo a un groove dalle parti di Madchester sul quale i quattro concertano uno studio sull'arrangiamento creativo: il modo in cui gli strumenti si passano il testimone nella gestione degli spazi, unito alla densità di texture che procedono non solo verticalmente (ossia in una concezione accordale del discorso), ma anche orizzontalmente (cioè in qualcosa di simile al contrappunto), generano uno stupore incantato e, per quanto mi riguarda, ancora indecifrabile.

Nel dispiegarsi delle forze in campo, le chitarre (cortesia di Gauthier Ajarrista, un talento di razza) sono quelle che forse sorprendono di più per la ricerca su trimbriche ed effetti, laddove basso e batteria si sganciano spesso dal ritmo binario onde inseguire sincopi inedite e, in generale, soluzioni più varie. Ecco la circolarità metallica di PT Cruiser, dove il riff di basso si fa tutt'uno con le scansioni hard delle sei corde e le suggestioni sinfoniche di quello che pare un mellotron; ecco The Realest, controcircuito di muscolarità nu new wave abbinata a partiture pianistiche e controtempi ossessivi, o la regalità krauta di Yours For You (quasi batte gli Horrors al loro stesso gioco) a sgualcirsi in pieghe gaze e tastiere paonazze; o ancora H8 City, un'autobahn buia dove i synth, oltre che spartirsi linea di basso e polpa melodica, "fanno" le chitarre, col ritornello che si riduce a un "la la-la-la-la" placido e tossico.

Oceanside, ciliegiona sulla torta, racchiude tutte queste innovazioni in un ibrido che sembrava difficilmente ipotizzabile. Un mid-tempo da cui affiorano addirittura aromi soul (l'Otis Redding di (Sittin' On) The Dock Of The Bay?), tanto nell'interpretazione quanto negli staccato dell'elettrica che si affiancano al riff principale e imbrigliano la linea vocale, circuendola, dettandone lo svolgimento. Di pari passo, i preziosismi strumentali abbondano: nella prima strofa soltanto i ghirigori della chitarra slide a "duettare" con la voce; nella seconda l'effetto utilizzato è un chorus che rimodella lo strumento nella sua fisicità e nell'attrattiva armonica (ora a guidare le danze è un fraseggio mediorentale). L'effetto è quello di un dondolio suadente, di perfetta consonanza fra riff e melodia in quello che è un saggio indimenticabile di sapienza compositiva.  

Alla luce di queste considerazioni, capirete perchè resta inspiegabile, almeno a parere del sottoscritto, l'aura di sufficienza che accompagna ancora oggi l'iter degli O. Children. Forse - e qui si potrebbe aprire (ma apriamola, sì!) una parentesi - la  ragione sta nell'aumento spropositato (con annesso appiattimento) della proposta musicale, a fronte della quale la critica reagisce rifiutando in blocco, non operando i dovuti distinguo. Questo almeno recita l'adagio, che suona più come un'autogiustificazione bella e buona. In verità, la spiegazione più plausibile resta la crisi - quando non proprio il fallimento - di un metodo d'analisi: dove possono portare disamine imperniate su fiumi di paragoni - spesso scontati o poco ponderati o gettati nella mischia giusto per far intendere che di musica ci si intende eccome, capit? - se non nella sterile "ricamatio" di luoghi comuni su quanto il nostro presente sia congenitamente dipendente da (quando non puro riflesso di) un passato divenuto nel frattempo enciclopedico e spaventosamente fruibile? La retromania è un malanno non tanto dei musicisti quanto dei critici. A prevalere, fra questi ultimi, siano essi statunitensi o britannici e finanche italiani, è un appannamento diffuso, l'incapacità (o peggio, il timore) di andare oltre macrocategorie di comodo come nu-new wave o hype da una botta e via (shitgaze, witchouse, etc.). Si fatica a "leggere" il nuovo perchè il troppo passato incatena a una visione subdolamente preferenziale, e anche quando fioccano i consensi su singoli artisti, manca la capacità di emanciparsi dall'esame del particolare, ampliare l'orizzonte dello sguardo: non limitarsi all'apprezzamento del singolo gruppo ma individuare, invece, le costanti prettamente stilistiche (e quindi non solo geografiche, culturali, etc.) che legano, "coalizzano", "fanno" i generi (e si potrebbe parlare tanto della deriva di cui qualcuno ha ipotizzato l'inquadramento col felice termine math-pop, quanto della scena  - come definirla... "gothic-gaze"? - che da qualche anno sta mostrando i denti in terra britannica).

Al di là di questa leziosa manfrina, la situazione per gli O. Children non resta certo delle più rosee. Tolta una manciata di ottimi giudizi profusi da webzine poco note o iper-specialistiche, l'accoglienza riservata al nuovo disco rasenta l'indifferenza: l'ennesimo 7 di NME li segrega nel purgatorio delle promesse mancate; idem dicasi del critico di Drowned In Sound che, però, almeno si dimostra fiducioso per il futuro e auspica ulteriori progressi nel terzo album; il silenzio delle altre "grandi"  (quello di Pitchfork vale persino più di una prevedibile stroncatura) non promette nulla di buono. Il destino della band sembra perciò indirizzato al culto di pochi appassionati, e la cosa non può che dispiacere. Perchè, sì, un ipotetico terzo album potrebbe segnare uno smarcamento ancora più netto dalle dinamiche post-punk (e non è detto che sia un bene, anzi!), ma il qui presente "Apnea" fotografa un gruppo in tale stato di grazia che ignorarlo equivale a commettere un crimine contro la musica.  

V Voti

Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 23 voti.
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Noi! 7/10
ciccio 8/10
Cas 8/10
facco 8,5/10
dr kool 5,5/10
motek 5,5/10
4AS 8,5/10
bonnell 5,5/10
modulo_c 7,5/10
target 7/10
hiperwlt 6,5/10
maxco74 7,5/10
ethereal 5,5/10
andy capp 9,5/10
REBBY 9/10

C Commenti

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sfos alle 9:16 del 16 luglio 2012 ha scritto:

Discone e disamina perfetta. Questo disco sviluppa un'estetica che al di là dei riferimenti che saltano subito in testa, mi sembra proprio tipica di questo tempo. Un'epica gothic-post punk ma con feeling romantico e anche adolescenziale; un disco che cerca un contatto con l'ascoltatore, cerca comprensione. Sul piano melodico la partita è stravinta: Chimera esplode in un chorus liberatorio, The Realest ha dei cambi di tempo per cui i Bloc Party di adesso pagherebbero. Una versione soul e quasi gospel della musica dark. Tra i migliori dell'anno.

Lezabeth Scott alle 12:27 del 16 luglio 2012 ha scritto:

"Red Like Fire" è un brano assolutamente divino.

Cas (ha votato 8 questo disco) alle 18:26 del 16 luglio 2012 ha scritto:

amen, los, amen. recensione stupefacente, come sempre. si impara sempre tantissimo dai tuoi scritti disco bellissimo, un netto passo avanti rispetto alla (pur bella) rievocazione goth dell'esordio. si aumenta lo spettro sonoro, si infittiscono le trame, si pensa in grande (in orizzontale, in verticale, in diagonale eheheh). insomma, bravissimo tu e pure loro!

Giuseppe Ienopoli alle 1:43 del 17 luglio 2012 ha scritto:

... x Leza! ... scegliere un brano a disco è: A) ... un vezzo ... B) ... una dieta particolare ... C) ... pigrizia ... D) ... un limite mentale ... E) ... discrezione ... F) ... un sorteggio ... G) ... un contratto ... H) ... un risparmio energetico ... I) ... un voto (in senso religioso) ... L) ... per non dare all'occhio o all'orecchio ... M) ... tirchieria ... N) ... una lezabethata ... O) ... oh basta!

Lezabeth Scott alle 9:47 del 17 luglio 2012 ha scritto:

A) Affari miei!

Giuseppe Ienopoli alle 22:57 del 17 luglio 2012 ha scritto:

... e-v-i-d-e-n-t-e-m-e-n-t-e sì! ...

Utente non più registrato alle 12:58 del 23 luglio 2012 ha scritto:

un altro lavoro che sposta oltre i confini del postpunk o gothic che dir si voglia.

4AS (ha votato 8,5 questo disco) alle 14:03 del 27 settembre 2012 ha scritto:

analisi stupefacente del maestro losi. al momento, una spanna sopra alle altre band post punk revival, voce di una teatralità gotica esaltante. i primi 4 pezzi (i più complessi) sono da 10 secco, così come Chimera nel finale.

Gio Crown (ha votato 8 questo disco) alle 10:43 del 30 settembre 2012 ha scritto:

cupo e bellissimo! Alcuni pezzi grandiosi (holy wood e realest, I know you love me chimera) la voce solista è splendida (mi piacciono tanto le voci baritonali "riverberate"...come un demone che parla dall'oltretomba!) peccato che la critica blasonata lo ignori...se ne pentiranno poi quando cercando di capire da dove arrivano si sforzeranno di inquadrarli in qualche corrente senza percepirne l'originalità....una sola piccola notazione: il modo di cantare e coniugare voce e musica mi ricorda qualcuno forse dei miei tempi ( anni '80) ma non riesco a ricordare chi fosse...

lev alle 15:52 del 30 settembre 2012 ha scritto:

può essere david gahan? a me ricorda lui. gran bel dischetto comunque.

Gio Crown (ha votato 8 questo disco) alle 10:47 del 30 settembre 2012 ha scritto:

Dimenticavo...bravissimo il recensore!!

Gio Crown (ha votato 8 questo disco) alle 19:08 del 30 settembre 2012 ha scritto:

Si certo i Depeche Mode...ma adesso ricordo...Fiction Factory "Feels like heaven" era una hit degli anni '80 non ho mai più sentito parlare di loro

non è forse proprio la stessa sonorità ma l'uso della voce gli assomiglia molto

bbjmm alle 17:08 del 21 ottobre 2012 ha scritto:

Alla luce di questa recensione e considerazioni, capisco perchè, almeno a parere del sottoscritto, l'aura di sufficienza che accompagna ancora oggi l'iter...Ma ragazzi non ci rendiamo conto della piattezza armonica e creativa del gruppo e del cantante? Ma dico io...non ci rendiamo conto del periodo storico..sembra tutto uguale sentito e ribbolitto...cari saluti.

REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 16:22 del 22 ottobre 2012 ha scritto:

((°°)) eeh? dal dizionario Hoepli "iter: complesso di formalità e di modalità da compiersi per qualsiasi procedura; trafila..."

Accompagna ancor oggi che? eheh

A me stanno piacendo invece, certo in alcuni brani sembran dei National in salsa brit, ma son dei bravi giovanotti, di questo periodo storico eh, ed il cantante e un bel baritono ghgh

modulo_c (ha votato 7,5 questo disco) alle 22:13 del 11 novembre 2012 ha scritto:

Ma quant'e' bella "I Know (you love me)"? Canzone dell'anno, per me. Da sola vale il prezzo del CD. Anche il resto non si butta, ben'inteso...

REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 9:09 del 12 novembre 2012 ha scritto:

tantissimo

E' la più "National" di tutte