R Recensione

7,5/10

Marika Hackman

We Slept At Last

Al suo esordio sulla lunga distanza dopo più di due anni a pavimentare il sentiero a suon di Ep, Marika Hackman conferma le aspettative e sorprende per le tinte sempre più dark della sua musica. A scanso di equivoci, stiamo parlando di un'artista sommariamente inquadrabile nel cosiddetto filone nu-folk, dal quale si emancipa in virtù di lungimiranza, istrionismo, personalità e attitudine alla contaminazione. Elementi ravvisabili, seppur declinati secondo altre priorità/coordinate, pure nell'amica e collega Laura Marling, la quale ha giocato e sta giocando un ruolo non trascurabile nel promuovere la musica della Hackman: prima garantendole il ruolo di supporter nel suo UK tour del 2013, ora portandola con sé negli Stati Uniti per una serie di concerti estivi insieme a Johnny Flynn (colui il quale, tra le tante altre cose, nel 2012 produsse il primo singolo di Marika, You Come Down, poi inserito nell'Ep “That Iron Taste”).

Non figuratevela però come una “raccomandata” di lusso, perchè ancora una volta la musica parla da sé. Già muovendo i suoi primi passi, questa polistrumentista ventunenne nativa dello Hampshire (ma di padre finlandese) elargiva perle di scrittura sopraffina, voce profonda e timeless, una cura inusuale per gli arrangiamenti, nonché lo sfoggio di valori produttivi (Charlie Andrew, già co-responsabile di un classico '2010s come “An Awesome Wave” degli Alt-J) decisamente eccentrici per la media nu-folk. Si ascolti, a tal proposito, il folk-pop in salsa digitale Bath Is Black o ancora Cannibal, girandola indie-pop affogata in timbri chitarristici liquidi, pattern percussivi marziali e sbuffate di armonica. Eppure le cose, nella musica della Hackman, non sono ciò che sembrano. Dietro il set denso di colori, infiocchettato di particolari disorientanti, brulica una tensione che lo sguardo enigmatico della musicista lascia solo intuire, una fascinazione per il macabro espressa ora in toni surreali (“Have you seen my nose?! I cut it off last night / Let's just hope it grows, I'd hate to look afraid” da Cannibal) ora intrisi di desolazione (“Even though you think to push me from the bath into the sink / I can still get clean from everything obscene / So just pass me the soap and I will scrub so hard to have the hope / That one day I'll be free and flies won't follow me” da The Bath Is Black). 

La stessa palette stilistica con annesse atmosfere degradate (tipo Francis Bacon alle prese con un cartoon) si ritrova ora in Animal Fear, accompagnato da un esaltante video girato in finta bassa fedeltà dove una Hackman licantropa sbrana i due membri della band (sì, la bassista è proprio Laura Marling). L'altro singolo ad anticipare l'album, Drown, è invece una faccenda più oscura: folk-step claustrofobico, acustica leggiadra, voce doppiata da un vocoder, ritornello che implode in un buco nero di elettronica e coro gregoriano (“Oh, to drown in your mind / I will, I know I will / And suffocate in your smoke / Die, stuffing my lungs with their fill”).

We Slept At Last” (Dirty Hit, Febbraio 2015) parte proprio da Drown per esplorare un mood seplocrale, sospeso in un limbo tra antico e avveniristico, dove Marika miscela leggenda e (tetra) realtà, forme e modalità compositive, strumenti provenienti dal passato remoto (i tradizionali indiani sarangi e dilruba) e da quello prossimo (sintetizzatore, mellotron, autoharp, fisarmonica, chitarre acustiche ed elettriche). Il picking non particolarmente agile ma evocativo spinge Hackman a insistere sulla densità armonica (la spartana Claude's Girl, la celtica Monday Afternoon) e sulla texture (Before I Sleep, la giungla percussiva che invade Ophelia, la ciondolante In Words), fino all'ambience pura di Undone, Undress che lega benissimo con l'opposto chitarrismo “amniotico” di una Open Wide, scheletro di rock song a liquefarsi nel Flanger-Chorus (immaginate Nico che coverizza, putrefacendolo, una brano della prima Cat Power).

La narrazione procede per immagini annichilenti ("If I am a mouth that bit the hand that gave me life / Then I'll kiss a chord / Suck from melody, my fertile wife" da In Words; "The flannel on the floor / The purple round your mouth /You washed it until it's sore / And shining (…) / I watched you from the bed / Putting on your face / A child in a mask / A child" da Open Wide) che tanto devono alla tradizione delle grandi ballate in lingua inglese a sfondo tragico (“The trace of your steps / Leads right to where I took my breath / For the last time, it lingers forever / As a ghost of where we last met” da Monday Afternoon). Parole tutt'altro che secondarie rispetto alla musica, anzi complemento necessario delle peregrinazioni che compongono un album davvero notevole, la cui unica pecca potrebbe essere giustappunto il lesinare su canzoni dal ritmo più sostenuto. Difetto facilmente perdonabile se si considera che “We Slept At Last” resta, nonostante il dispendio di forze e di originalità messe in campo, un'opera prima, alla quale si spera possano seguirne tante altre. Finora Marika Hackman il suo dovere l'ha fatto egregiamente, ora sta a voi darle una chance.

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