Violent Femmes
Violent Femmes
Questa città non è quella città. E quellacittà non assomiglia affatto a questa. Potreste essere cresciuti su una delle due coste (a Washington, magari, o a New York, Seattle o a Frisco), se siete fortunati, spassarvela alle feste sulla spiaggia, sbatacchiati per intere nottate dagli urti della slam-dance, finché resta una stilla d’alcool, un briciolo d’energia, finché non arriva la polizia; sgattaiolare oltre i contrafforti dei quartieri residenziali per farvi una cultura di graffiti e tatuaggi, perlustrare i vicoli che, sparsi fra le Avenue, diventano imprevedibili vie di fuga o territori di caccia per le tribù/gang che li presidiano.
Oppure no. Vi è andata male. Siete nati nell’entroterra, in pianura o peggio ancora in montagna, con le strade vuote, le case a un piano e le insegne col maiale disegnato che ballano al vento; organizzate in casa i vostri party, se i genitori sono fuori e quei beccamorti dei vicini fanno venia di “non farsi infartare”. In caso contrario non vi rimane che aspirare effluvi di benzina dal serbatoio del vostro scooter, leccare il dorso di un rospo sperando che sia la volta buona o procurarvi un trip macerando nell’acido le figurine del baseball e lasciando poi che si asciughino finché dal retro non scompaiono le statistiche sulla media ER e le battute vincenti.
Nel caso dei Violent Femmes, però, la famelica sfiga adolescenziale si è rivelata la loro più grande ricchezza di musicisti. Figli dei sobborghi di Milwaukee, Wisconsin, là dove la periferia scolora nella brulla spianata delle badlands, Gordon Gano, Brian Ritchie e Victor De Lorenzo si sono dedicati ad un folk “apocrifo”, derivante più da fole suburbane o da lontane epifanie di feste del raccolto, che da un’effettiva conoscenza del vocabolario della tradizione.
Più che puntare sul revival di qualcosa che, di fatto, non era mai esistito, lo hanno trasformato in polvere pirica per le bocche da fuoco del beach-punk, l’hardcore del litorale (quelli relativamente felici di cui sopra), coniando una prassi amatoriale, nevrotica e scostante che qualcuno ha ribattezzato cow-punk e che sancirà, per di più, l’atto di nascita di quel fenomeno estensivo conosciuto come indie-rock (non che io abbia una particolare inclinazione nei confronti della filologia, ma credo siano stati il primo gruppo per cui fu spesa tale etichetta; principale denominatore comune: una grana sonora sgraziata e rumorosa che abbrutisce i tradizionali generi melodici).
Così, mentre gli anni ’80 già incalzano, fasciati in un abito di sartoria italiana, un long drink in palmo di mano, i Nostri si accaniscono nel seviziare con crudeltà punk nell’antiquata texture armonica della “vecchia America”. Le canzoni di Violent Femmes (Slash Records, 1982) sono sketch e bozzetti di abiezione provinciale, spruzzi di acne e “scariche” che risalgono alle scoperte della pubertà, alienati e viziosi breviari di frustrazioni sessuale.
Blister in the sun, jug sincopato e gioviale, ne fissa già le coordinate: pressappochismo musicale, strumenti di fortuna (una batteria composta in pratica solo dal rullante e suonata con le spazzole, un basso mariachi enfio e scordato) e un’allegria malsana che può facilmente tradursi in un’invettiva isterica o in ironica autocommiserazione. Kiss off è un punk rurale, acustico e disarticolato che dilaga nel call and response ubriaco del ritornello: “paranoide e adenoide”, Gano balbetta, parla tra se e se (memorabile la minaccia/avvertenza “I hope you know that this will go down on your permanent records”), conta fino a 10 e ingoia d’un fiato il suo bolo d’amarezze da classico ex sfigato. Please do not è un irresistibile, contagioso spiritual per liceali in calore (Ritchie, al basso, fa la parte del leone) che si abbassa fino a lambire la novelty da avanspettacolo, consapevole parodia della solita via crucis di “sesso senza amore e amore senza sesso” come direbbe Lester Bangs.
Add it up è forse il capolavoro di sempre, il pezzo che li consegna alla storia (anche a quella del cinema: Ethan Hawke la dedica a Winona Ryder in “Giovani, carini e disoccupati”, magari c’è ancora qualche demente che, come me, se ne ricorda). Che altro dire di un boogie martellante e semiacustico (la ritmica a tratti può ricordare Waiting for the man) che condensa in 5 minuti scarsi circa trent’anni di pulsioni sessuali legate alla musica rock (“Why can i get just one fuck? / I guess it’s got something to do with luck / but i’ve waited all my life for just one…”), crogiuolo di tensioni erotiche irrisolte, di una virilità incerta e contrastata che affonda in spelonche di profondità freudiana (“Oh my my my my mo mo mum / have you kept your eye, your eye on your son? / I know you had problems, you’re not the only one / when your sugar left, he left you on the run”)? Confessions inizia come un blues cantilenante per degenerare, nella seconda parte, in contorsionismi nevrastenici fomentati dalla prima frastornante comparsa dell’elettricità: irsuti jangle velvettiani e feedback ipercinetici che più “indie” di così si muore.
Prove my love, sferragliante “garage’a’billy” allietato da coretti surf/beat, è un altro anthem da manuale. Promise, punk-shuffle tagliente e “ferroviario”, è un disperato atto d’amore che riecheggia come un’invocazione salvifica e apocalittica, la figura femminile un lirico sembiante di Dio (anticipando così la futura vocazione di Gano per il gospel e la musica sacra). To the kill ha tutta l’aria di una cow boy’s ballad squassata dalle digressioni rumoristiche dei Velvet Underground (chitarra e batteria fanno a gara per imitare Morrison e la Tucker, mentre Gano è nauseabondo e soliloquiante come Reed prima maniera). Gone daddy gone è un boogie da high school alla Jerry Lee Lewis , tempestato dal battito di uno xilofono hawaiano, in bilico fra una parodia di Lionel Hampton e il cabaret punk dei Pere Ubu. Good feeling, ballata tzigana e randagia per piano e violino messicano(nei suoi
momenti migliori, un incrocio fra "Sad eyed lady of the lowlands" e "Pale blue eyes"), trasfigura il finale nei bagliori di un'accettazione quasi religiosa del proprio
destino, Gano è sempre malinconico e lamentoso ma, almeno per il momento, pacificato. Come uno che per nulla al mondo abbandonerebbe le spoglie della sua triste, cancerosa città, fatta di nulla fuorché solitudine, senza averle prima redente con la benedizione della propria arte.
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