Ramones
Rocket To Russia
I don’t wanna to be buried in a pet sematary/ i don’t wanna live my life again/ oh no, oooh no! (Joey Ramone)
Da adolescente mi mandavano in fissa. Ne ero ossessionato. Volevo essere uno di loro. Il quinto Ramone. Sarà che non sapevo né cantare, né suonare, ma come tutti a quell’età morivo dalla voglia di farmi notare, magari nel modo sbagliato, e uscire una volta per tutte dall’anonimato. Sarà che loro erano così perfetti nella loro totale imperfezione.
Così impulsivi e impreparati da scartare subito l’ipotesi cover, il gradino iniziale per ogni band alle prime armi da Palombina Vecchia a Malibù, e gettarsi nella mischia sgomitando scilinguagnoli accattivanti, frutto dello loro infanzie frustrate, su scoordinati e fulminei spezzatini ritmici, uno via l’altro, che non ti lasciavano nemmeno il tempo di accenderti una sigaretta. Sarà che se ci riuscivano loro potevi farcela anche tu.
Salire su un palco corazzato di pelle, catenacci e adesivi e dei jeans che tua madre aveva gettato nel cassonetto dell’immondizia, nascondere la tua timidezza dietro un paio di occhiali a specchio, straziare la tua reputazione in tanti piccoli pezzi come facevano certi professori sadici con i compiti in classe e, una volta appuntiti e impastati di muco e di saliva, scagliarli addosso al pubblico, farli incazzare come vespe, disgustarli, mandarli a casa a calci, tutti tranne quelli che la pensavano come te, che sarebbero rimasti, gridargli in faccia che hai quindici anni, le discoteche di domenica pomeriggio ti fanno schifo, le ragazze non ti guarderanno finché non ne avrai almeno diciassette e anche allora rimarranno delle stronze, che la vita è una noia, un’assurda presa per il culo, che la cosa più eccitante che ti poteva capitare di fare durante la giornata era di sballarti inspirando dai serbatoi dei motorini, che di notte fai sogni strani in cui pianifichi di dare fuoco a tutta la città ma all’ultimo qualcosa va sempre storto, che i tuoi non ti capiscono, nessuno ti capisce e che piuttosto che diventare uguale agli altri ti saresti dato fuoco tu, come ha fatto quello studente di Praga, insieme ai pochi libri che ti piacciono: “On The Road”, “Cronache di ordinaria follia” e le poesie di Edgar Allan Poe.Se c’erano riusciti loro, potevi farcela anche tu…
Tutto sommato nei ventidue anni effettivi di carriera (1974-1996) i Ramones non raggiunsero mai un grande successo di pubblico, né di critica. L’apprezzamento nei loro confronti s’impennò clamorosamente a partire dal 2000, da allora collezionarono undici dischi d’oro e furono regolarmente citati nelle classifiche dei migliori gruppi di tutti i tempi. Un riconoscimento tardivo ma quanto mai dovuto ad un gruppo che, come pochi altri nella storia, contribuì a rivoluzionare le sorti della musica rock.
Del tutto estranei al filone intellettuale newyorkese, pur ricalcandone in parte gli itinerari e la topografia metropolitana, al masochismo post-adolescenziale degli Stooges, quanto al fervore militante degli MC5, i Ramones codificarono un nuovo marchio sonoro, il punk settantasettino, riallacciandosi alla tradizione antecedente del 60’s pop, del surf-beat, del rock’n’roll basico, e mostrandone, al contempo, le possibilità di un superamento sia in senso heavy (molti futuri gruppi metal ne furono impressionati) che melodico (hardcore melodico e power-pop). Se dovessimo citare due influenze più contigue all’esplosione del fenomeno Ramones queste sarebbero senz’ombra di dubbio i New York Dolls e gli sfortunati, e mai abbastanza rivalutati, Dictators. Ma il paragone regge fino a un certo punto: impossibile pensare ai Ramones prima dei Ramones. A quegli accordi che sembrano non cambiare mai come in un supplizio infernale o nella più alta “beotitudine”, a quei ritmi scanditi improvvisamente troncati da ripartenze nevrotiche e convulsive, a quelle strofe di due versi tappezzati di stranezze goliardico-dadaiste, a quelle chitarre murate vive che sprigionano euforiche folate d’energia, a quei ritornelli semplici e memorabili come non se ne sentivano dai tempi di Phil Spector (paradossalmente il connubio, avveratosi all’alba degli anni 80 con End Of The Century, sembrava già scritto fin dall’inizio: con il muro delle chitarre al posto di quello dell’orchestra e le melodie sparate a volumi assordanti), il tutto compresso in pezzi di fattura elementare che a stento raggiungono i due minuti.
Rocket To Russia, che completa la trilogia iniziale dei cosiddetti “Fast Four”, esce nell’agosto di quel fatidico 77, proprio mentre i semi gettati dai quattro fratelli apocrifi durante la tournèe inglese dell’anno precedente stavano incominciando a sbocciare intorno a loro, ed è l’ultimo con la formazione originale: Joey alla voce, Johnny alla chitarra, Dee Dee al basso e Tommy, che successivamente si defilerà nel ruolo di produttore, alla batteria. In apertura una sfrenata Cretin Hop illustra nel modo più esemplare la loro teoria da idiot savant del rock al grado zero con un coreografico inno al pogo come unica opportunità per i disadattati di salire verso l’alto, doppiata da Rockaway Beach graffiti surf-punk da spiaggia radioattiva.
Poi alzano lievemente il piede dall’acceleratore: Here Today, Gone Tomorrow e Locket Love sono teenage love songs per i figli della guerra fredda, cioccolatini a forma di cuore, ripieni alla ciliegia, squagliati su un cucchiaino da tossico, I Don’t Care, uno slogan epidermico e sottoculturale da opporre al “No Future” inglese. Sheena Is A Punk Rocker è la più “spectoriana” del roster coi clapping, i timpani e i coretti surf che accentano la corsa della chitarra in un ode sempiterna alla bellezza sfuggente e spigolosa dell’altra metà del cielo punk (un po’ la loro Ruby Tuesday), We’re An Happy Family, una stripe dal gusto fumettistico e fanzinaro, l’abbozzo d’un desolante e divertito quadretto infantile nel fascicolo di qualche assistente sociale, Teenage Lobotomy, vertice stop’n’go della loro carriera seconda forse soltanto a Blitzkrieg Bop.
Cruciali nel promuovere il punk a musica da ballo (e valvola di sfogo) per un intera generazione le due cover Do You Wanna Dance (scritta negli anni 50 ma portata al successo, guarda caso, dai primi Beach Boys) e soprattutto Surfin’ Bird schizzata come una macchia di Rorshach e incendiaria come una cadillac innestata coi reattori di uno shuttle. Il vitalismo sfrontato e irrazionale di I Wanna Be Well e il suicidio burlesco di Why Is It Alwats This Way completano degnamente un album che è il nul plus ultra e il suggello d’un momento storico irripetibile. Nel breve volgere di qualche anno il punk e il gruppo del Queens s’incammineranno per altre strade. Ma questa è un’altra storia.
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