Nick Cave and the Bad Seeds
Tender Prey
Fosse nato con cinque secoli d’anticipo lo avrebbero arrostito su un palo in mezzo a Jan Hus e Giordano Bruno. Nick è un dotto alchimista della musica popolare. Un predicatore blasfemo. Per lui sacro e profano coincidono, o meglio, sono la stessa cosa: idiomi che confluiscono nell’esperanto della creazione, differenti forme di aggregazione dell’energia spirituale in materia musicale (E= mc2). Psicotrope possessioni sciamaniche che rafforzano le sue spasmodiche omelie da pastore di anime. Tender prey è l’avvento del settimo giorno. Il disco della rinascita.
Sbirciando in tralice l’annus horribilis (1987: concerti degenerati in risse, arresto per detenzione di 884 grammi di eroina, lunga e tribolata disintossicazione), alle sue spalle insieme a tre dischi quantomeno fondamentali per le sorti della musica contemporanea (From her to eternity, 1984, The unborn is dead, 1985, Your funeral…my trial, 1986), Nick decide di cambiare registro, una volta per tutte e senza rimpianti. Nuova formazione (con Kid “Congo” Powers, prelevato dai Gun Club e Thomas Wydler ormai stabilmente dietro le pelli), nuova etichetta (la mitica Mute in luogo della Hampstead), ma soprattutto, nuovo approccio estetico e compositivo al consueto carniere di generi (blues, country, post punk) che si apre verso il passato più prossimo (gospel, murder ballad, cabaret-lieder).
Un neoclassicismo solo apparente che ribalta di 180 gradi la sua teoria musicale: come la “tenera preda” del titolo, l’umanità braccata da forze oscure e talvolta sovrannaturali, la grana “sonica” non viene più ghermita, sfregiata e deformata dal rumore ma insufflata con la cura di un mastro vetraio, pervertendone le intime qualità armoniche senza mortificare la melodia. In pratica il “nuovo” Cave fa un passo indietro, rendendosi conto che un palcoscenico non è un circo di dolore e un uomo che soffre non assomiglia affatto ad un orso ballerino. Scampato dall’essere la vittima predestinata del suo nichilismo adolescenziale, Cave cerca salvezza, non tanto nella tormentata palingenesi del cristiano rinato, quanto in una limpida, estesa e solenne forma canzone che anela alla maturità senza abbandonare la gravosa, inestinguibile consapevolezza dell’ abiezione.
Per tutte queste ragioni la cardinale The Mercy Seat è il nucleo radiante dell’album: costruito sull’ossessiva ripetizione di unica frase (in elogio al minimalismo di Cale), si schiude un raga-gospel in perenne e vertiginosa accelerazione che sublima un rosario di sonorità (ritmica “neuro-punk” alla Suicide, piano metallico industrial e corali di musica sacra che contrappuntano la sua tipica declamazione febbricitante) nel cantico di remissione di un condannato a morte (“una delle mie mani è buona / ho tatuato M.A.L.E. sul pugno di suo fratello”, dice Nick ispirandosi al personaggio interpretato da Robert Mitchum in “Il terrore corre sul fiume”).
Un mastodontico rogo purificatore, un interminabile supplizio “cristologico” (la coda del pezzo sfuma in un fade corale potenzialmente infinito) in cui il peggiore, socialmente (l’assassino che “ha sempre detto la verità” e quindi non mente, non prova rimorso, non ha “paura di morire”), è anche il migliore, moralmente, colui che può redimere l’umanità intera attraverso la mostruosa espiazione della sua pena (“e il trono di misericordia è incandescente / e credo che la mia testa fumi / e in un certo senso spero / di farla finita con questi sguardi stupiti / occhio per occhio, dente per dente / e comunque non c’erano prove / e neppure un movente). Up jump the devil è uno shuffle paludoso e cantilenante, trascinato in catene dal basso scordato e cavernoso di Harvey: i meandri ombelicali e le spire del nodo scorsoio, il tetro vagabondare del diavolo col suo compare che è un po’ Robert Johnson, un po’ “Saint” Huck Finn e un po’ il “Joe” dell’eponima canzone di Hendrix. Cave gorgoglia come un licantropo sostenuto da un coro di filibustieri ubriachi, piano e xilofono affastellano stridenti figure ritmiche, mentre le chitarre di Blixa e Kid ansano sporche sommerse come pneumatici sgonfi nel fango. Il traditional Oh happy day! è l’inno su cui si modella l’irriverente Deanna: cadenze surf-beat, cori pentecostali e farfisa commentano sullo sfondo le gesta di una scombiccherata coppia di “assassini nati”, antesignani dei Mickey & Mallory del pamphlet di Oliver Stone.
Già screamer e shouter di vaglia, Cave riscopre il crooning singhiozzante di Roy Orbison in un travolgente omaggio/parodia. Watching Alice, languida, commovente epigrafe alla Leonard Cohen, è una smagliante parlour per piano e armonica su cui aleggia un sospetto morboso ed opprimente: è l’Arcangelo Gabriele che spia questa Maria/Lolita mentre orna le vesti nella cella del suo convento/prigione, o è solo un maniaco voyeur alla Quilty? Almeno per noi ascoltatori, “guardare Alice crescere anno dopo anno / su nel palazzo di cui è prigioniera” rimane un privilegio di cui godere in religioso silenzio. Mercy, dissonante call and response (per pianoforte invasato da evangelista, armonica scorticata e rivoli di slide), è una tempestosa rilettura della parabola di Giovanni Battista che si conclude nel giardino dei Getsemani in odore d’abiura (“la mia storia m’era venuta a noia / da quante volte era stata narrata / E gridai – Pietà!- / gridai pietà di me! / abbiate pietà di me”).
Sulla scia di Well of misery e Train long suffering, City of Refugee spande il suo scalpitante esorcismo fra le pieghe di un apocalittico blues ferroviario (che nel ritornello riprende un brano di Blind Willie Mc Tell, un altro dei misconosciuti rinnegati delle dodici battute tanto cari a Cave) da cui discende una delle visioni più accese e ferine del maestro di Warracknabeal, un oscuro senso di giustizia che Dio amministra senza misericordia (“lavorerai nell’oscurità / contro il tuo simile / (…) e raschierai e raschierai / ma il guaio è, amico mio / che il sangue non se ne andrà / il sangue non scomparirà”).
E se per Slowly goes the night, lounge soul orchestrale, brumosa allegoria della crisi d’astinenza, Cave sceglie un’orazione languida e penitenziale fra Barry White e Jim Morrison, con Sunday’s slave conia l’ingannevole rovescio di quell’unica medaglia (la tossicodipendenza) in un incedere solenne e marziale da lieder Weilliano ( “le nostre sofferenze sono innumerevoli / i nostri piaceri sono pochi e selvaggi / tutto il giorno mi scavo la fossa / ora bisogna andare a prendere lo schiavo della Domenica”). Sugar sugar sugar, è uno spiritual demoniaco, ossessivo mantra tribale eretto su una miriade di quartine e senza ritornello: Cave cerca di liberarsi una volta per tutte della propria “metà oscura” in comunione con l’estremo sacrificio dell’ennesima vittima innocente (“tender prey”).
Il che, come in quasi tutti i suoi dischi, prelude alla contrastata resurrezione dell’epilogo: una canzone serena, un’invocazione terrena, una temporanea assoluzione dai tormenti dell’anima, in questo caso, la benedizione purgatoriale di New Morning (“grazie per avermi dato / un nuovo mattino / tanto intrisa pareva la notte / di oscurità e sangue”).
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